02.05.2017 Icon

Contratti “monofirma”: la parola alle Sezioni Unite?

L’intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte in materia di contratti c.d. “monofirma” potrebbe essere imminente.

Infatti, con la recentissima decisione del 27 aprile 2017, la Sezione I° della Corte di Cassazione, in persona del relatore dott.ssa Nazzicone Loredana, ha finalmente rimesso la causa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, affinché queste ultime chiariscano se il requisito della forma scritta del contratto di investimento (ma il principio vale per tutti i contratti bancari) esiga, accanto a quella dell’investitore, anche la sottoscrizione dell’intermediario.

Come noto, la problematica è sorta proprio a seguito di alcune decisioni della I° Sezione, che a partire dal 2016 hanno dichiarato nulli i contratti stipulati con le banche, contenenti la sola sottoscrizione del cliente, ciò in chiara contraddizione con l’orientamento sino ad allora seguito dai giudici di legittimità e tuttora sostenuto dalla giurisprudenza di merito maggioritaria. Infatti, secondo le recenti decisioni della Suprema Corte, la forma scritta dei contratti bancari è richiesta dal legislatore ad substantiam e la produzione in giudizio della copia firmata dal cliente non è idoneo equipollente.

La questione non è di poco conto, laddove si consideri che nella prassi bancaria la conclusione di un contratto normalmente avviene con la consegna da parte del cliente di una copia sottoscritta dal medesimo, che resta in possesso dell’istituto di credito, seguita dalla consegna al cliente di altro documento identico firmato dalla banca. Ogni parte, dunque, ha la disponibilità materiale dell’originale sottoscritto dall’altra.

Nell’ordinanza oggi segnalata, la Cassazione ha dichiarato di non condividere l’orientamento giurisprudenziale, secondo il quale la produzione in giudizio ovvero altri comportamenti concludenti posti in essere dalla banca costituirebbero equipollenti della sua sottoscrizione.

Tuttavia, nel contempo, i giudici si sono interrogati se, in particolare alla luce del continuo sviluppo dei mercati sempre più finanziari e digitali, si possa effettivamente sostenere che la firma della banca sia indispensabile o, in altre parole, se il cliente sarebbe pregiudicato dalla sua mancanza.

Il ragionamento della Suprema Corte in merito è articolato e puntuale. Occorre, invero, considerare che non tutte le prescrizioni di forma sono uguali e che, nel caso di contratti finanziari, si può correttamente parlare di “forma di protezione”.  La stessa, infatti, “è volta specificamente a portare all’attenzione dell’investitore – la parte debole del rapporto (…) in quanto sprovvisto delle informazioni professionali sul titolo e, più in generale, sugli andamenti del mercato finanziario – l’importanza del negozio che si accinge a compiere e tutte le clausole del medesimo. La prescrizione formale trova la sua ratio nel fine di assicurare la piena e corretta trasmissione delle informazioni al cliente, nell’obiettivo della raccolta di un consenso consapevole alla stipula del contratto. Per tale ragione, la nullità di protezione può essere fatta valere solo dal cliente, oltre che rilevata d’ufficio dal giudice, sempre nell’esclusivo interesse e vantaggio del primo”. Anche l’ordinamento europeo non mostra di ritenere rilevante una forma scritta per i contratti bancari e finanziari ed altresì il legislatore italiano, nei casi in cui  ha richiesto la simultaneità delle firme, lo ha indicato esplicitamente (si pensi ai contratti di assicurazione). Dunque, pare ragionevolmente potersi sostenere, secondo la Sezione Prima, che ciò che conta è la sottoscrizione del cliente, mentre il consenso della banca può rivestire anche altre manifestazioni della volontà.

Ragionare diversamente potrebbe portare addirittura a comportamenti opportunistici dei clienti, che – dopo aver usufruito a lungo e con vantaggio di un rapporto – potrebbero improvvisamente eccepire la nullità del contratto per mancanza di firma della banca.

Si auspica, dunque, che le Sezioni Unite intervengano a dirimere finalmente la questione dei contratti “monfirma”, tenendo in debita considerazione le osservazioni che precedono.

Corte di Cassazione, sez. I°, 27 aprile 2017, n.10447Simona Daminelli s.daminelli@lascalaw.com

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