06.11.2017 Icon

B-movie in comunione e diritto di distribuzione

Scorrendo le sentenze del Tribunale di Milano pubblicate un paio di anni fa sul prezioso sito «giurisprudenzadelleimprese.it», ho trovato la decisione qui in commento riguardante l’esercizio dei diritti di sfruttamento economico dell’opera dell’ingegno in comunione. La decisione, ancorché non recentissima, è rilevante e ancora attuale nel panorama giurisprudenziale in quanto è una delle rare volte in cui l’istituto della comunione è applicato alle opere dell’ingegno e, in particolare, ai diritti materiali di sfruttamento economico.

I giudici meneghini hanno ritenuto che la sottoscrizione di un contratto di distribuzione di opera cinematografica sia atto di ordinaria amministrazione e che, pertanto, possa essere validamente concluso da un contitolare ex art. 1105 c.c. senza la partecipazione e il consenso dell’altro.

Il tema dell’istituto della comunione applicato ai beni immateriali è dibattuto soprattutto in ambito di brevetti per invenzioni industriali dove la partecipazione di pool di aziende compartecipi dell’attività di ricerca e sviluppo è, soprattutto in certi settori, la normalità.

Si riscontrano poi casi di comunione con riferimento ai segni distintivi in occasione di passaggi generazionali dove il marchio di famiglia diviene oggetto di contesa tra parenti che, più o meno consapevolmente, si ritrovano dopo anni di pacifica convivenza a dover affrontare lo spinoso tema della contitolarità dell’azienda (rinvio al noto caso Legea su questa rivista).

Nell’ambito del diritto d’autore è invece fenomeno più raro. Nulla questio in ordine ai diritti morali spettanti ex art. 44 l.d.a. in comunione al regista, allo sceneggiatore, all’autore del soggetto e delle musiche; il tema semmai si pone con riguardo al diritto di sfruttamento economico laddove, ordinariamente, il detentore è solo un produttore che dispone dei diritti in tutto il mondo.

Nella sentenza in commento, invece, si dà il caso di un’opera (complesso di opere) in comunione in parti uguali tra due produttori il primo dei quali dà in licenza il diritto di distribuzione ad un terzo soggetto per il territorio italiano. Il secondo produttore, rientrato dopo qualche anno nella piena titolarità dei diritti, chiede sia riconosciuta la nullità del contratto di distribuzione stipulato con il terzo dall’ex contitolare per difetto di unanimità deliberativa.

Come accennato, il Tribunale rigetta la domanda attorea ritenendo il contratto di distribuzione atto di ordinaria amministrazione perfettamente valido ed efficacie ex art. 1105 c.c. e, per l’effetto, condanna la parte alle spese processuali.

Non è chiaro l’addentellato codicistico a cui si riferisce il Giudice. Invero, le deliberazioni dell’art. 1105 c.c. devono essere prese a maggioranza, non essendo sufficiente la titolarità del 50%, inoltre per la loro validità occorre che tutti i partecipanti siano stati preventivamente informati (comma 3), e non pare sia stato questo il caso (anche se in atti risulta che vi fu comunque una tacita ratifica dell’operato del comunista).

Se, peraltro, il riferimento all’art. 1105 c.c. compiuto dal Tribunale si riferisse al primo comma («Tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell’amministrazione della cosa comune»), anche qui non pare che sia disposizione conferente al caso di specie in quanto un atto di disposizione del diritto, qual è il diritto di distribuzione, non è atto di mera amministrazione.

Ma il Collegio in tralice svolge un’altra considerazione. Ritiene infatti che il diritto di distribuzione (diritto principe tra quelli di sfruttamento economico dell’opera cinematografica) sia un uso che ai sensi dell’art. 1102 c.c. può essere oggetto di godimento indipendente da parte di ciascun comunista in quanto ciò non determina pregiudizio per il pari diritto di godimento degli altri comunisti.

Tale impostazione, non è in linea con certa dottrina che, in particolare in tema di diritti di proprietà intellettuale e industriale, ritiene che il marchio, l’opera dell’ingegno o l’invenzione industriale, debbano essere oggetto di sfruttamento necessariamente congiunto, nel senso di ritenere lo sfruttamento uti singulis contrario in qualche modo alla natura immateriale del bene oggetto di comunione, circostanza che impedirebbe sempre il godimento concorrente.

A mio avviso l’opinione del Tribunale è invece – in astratto – pienamente condivisibile (su punto rinvio al mio Appunti in tema di comunione di marchio d’impresa, in Riv. dir. ind., 2009, 104) e perfettamente coerente con le disposizioni codicistiche richiamate senza eccezioni dal CPI: in assenza di una norma che espressamente vieti l’utilizzo (lo sfruttamento) disgiunto dei contitolari, non v’è ragione di ritenere tale modalità illegittima e l’art. 1102 c.c. inapplicabile. Naturalmente ciò implica lo svolgimento di un’indagine che volta per volta accerti la non interferenza tra pretese concorrenti dei contitolari, ma non determina di per sé un’impasse nella gestione e sfruttamento dei diritti (si vedano tra i maggiori contributi sul punto: M. Rotondi, Diritto industriale, IV, Padova, 1965, 208; A. Levi, Cenni sulla comunione di invenzione industriale, in AA.VV., Problemi attuali del diritto industriale, Milano, 1977, 705; M. Ammendola, La brevettabilità nella convenzione di Monaco, Milano, 1981, 252; Gian. Guglielmetti, Le invenzioni e i modelli industriali dopo la riforma del 1979, Torino, 1982, 59; R. Gandin, La comunione di brevetto: appunti per un’indagine comparatistica, in Contratto e impresa, 1992, 1200; G. Aghina, I contratti di ricerca, in Riv. dir. ind., 1995, I, 310; Scuffi-Franzosi-Fittante, Il codice della proprietà industriale, Padova, 2005, 86; G. Sena, in Il diritto dei marchi, 4° ed., Milano 2007, 70; P. Cavallaro, La comunione del marchio, in Dir. ind., 1995, 921; D. Capra, Comunione di diritti di proprietà industriale e prerogative del singolo comunista, in Riv. dir. ind., 2, 2013).

In concreto, tuttavia, nel caso di specie non mi pare possa essere invocato pure l’art. 1102 c.c. in quanto il diritto di distribuzione fu concesso in esclusiva al terzo, il che precluse in radice la possibilità di godimento (almeno per il territorio italiano) da parte del contitolare rimasto estraneo al negozio.

Tribunale di Milano, 20 maggio 2015, n. 6300Francesco Rampone – f.rampone@lascalaw.com

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