Archivi giornalieri per 2 Luglio 2015

Nuovamente modificata la legge fallimentare: un primo esame

Lo scorso 27 giugno è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D.L. n. 83/2015 recante misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria.

Con particolare riguardo alla legge fallimentare vengono introdotte alcune modifiche  all’art. 182 quinquies l.f. in tema di finanziamento e di continuità aziendale nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti, che, nella nuova formulazione, così recita:

I. Il debitore che presenta, anche ai sensi dell’articolo 161 sesto comma, una domanda di ammissione al concordato preventivo o una domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’articolo 182 bis, primo comma, o una proposta di accordo ai sensi dell’articolo 182 bis, sesto comma, può chiedere al tribunale di essere autorizzato, anche prima del deposito della documentazione di cui all’articolo 161, commi secondo e terzo, assunte se del caso sommarie informazioni, a contrarre finanziamenti, prededucibili ai sensi dell’articolo 111, se un professionista designato dal debitore in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), verificato il complessivo fabbisogno finanziario dell’impresa sino all’omologazione, attesta che tali finanziamenti sono funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori.

II. L’autorizzazione di cui al primo comma può riguardare anche finanziamenti individuati soltanto per tipologia ed entità’, e non ancora oggetto di trattative.

III. Il debitore che presenta una domanda di ammissione al concordato preventivo ai sensi dell’articolo 161, sesto comma, anche in assenza del piano di cui all’articolo 161, secondo comma, lettera e), o una domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’articolo 182-bis, primo comma, o una proposta di accordo ai sensi dell’articolo 182-bis, sesto comma, può chiedere al tribunale di essere autorizzato in via d’urgenza a contrarre finanziamenti, prededucibili ai sensi dell’articolo 111, funzionali a urgenti necessita’ relative all’esercizio dell’attività’ aziendale fino alla scadenza del termine fissato dal tribunale ai sensi dell’articolo 161, sesto comma, o all’udienza di omologazione di cui all’articolo 182-bis, quarto comma, o alla scadenza del termine di cui all’articolo 182-bis, settimo comma. Il ricorso deve specificare la destinazione dei finanziamenti, che il debitore non e’ in grado di reperire altrimenti tali finanziamenti e che, in assenza di tali finanziamenti, deriverebbe un pregiudizio imminente ed irreparabile all’azienda. Il tribunale, assunte sommarie informazioni sul piano e sulla proposta in corso di elaborazione, sentito il commissario giudiziale se nominato, e, se del caso, sentiti senza formalità’ i principali creditori, decide in camera di consiglio con decreto motivato, entro dieci giorni dal deposito dell’istanza di autorizzazione. La richiesta può’ avere ad oggetto anche il mantenimento di linee di credito autoliquidanti in essere al momento del deposito della domanda.

Come emerge dalla lettura, l’art. 182 quinquies l.f. prevede ora, al comma 1, che il Tribunale possa autorizzare anche durante il procedimento di preconcordato, o di omologa degli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis L.F., o di esame del preaccordo, finanziamenti in via d’urgenza, in tal modo recependo quella che era già divenuta una prassi presso i Tribunali.

Come ha correttamente rilevato il Dott. Lamanna, nel primissimo commento al Decreto pubblicato su Il  Fallimentarista.it, sorprende che il legislatore non abbia colto l’occasione per risolvere una problematica che, sinora, ha indotto le banche a mostrare assai scarsa disponibilità a concedere nuova finanzia, e non soltanto durante il preconcordato.  “Ciò è dipeso dalla formulazione un po’ ellittica della norma nel punto in cui prevede appunto che il Tribunale possa autorizzare l’impresa proponente “a contrarre finanziamenti, prededucibili ai sensi dell’articolo 111”. Vero è, infatti, che in tal modo è stata codificata in via generale ed astratta l’attribuzione ai finanziamenti interinali del beneficio della prededucibilità, ma le banche hanno sinora dubitato che la formulazione normativa sia sufficiente ad escludere il rischio, ahimè qualche volta già concretizzatosi nella pratica, che in caso di eventuale fallimento successivo al concordato preventivo il giudice delegato neghi la prededucibilità in sede di verifica del passivo, considerando ex post insussistenti i requisiti alla cui stregua l’autorizzazione avrebbe potuto essere concessa o comunque quelli in presenza dei quali il beneficio della prededuzione potrebbe attualmente riconoscersi. Sarebbe stato dunque preferibile, per convincere le banche a dismettere la precorsa ritrosia a concedere finanziamenti durante il preconcordato, che la norma prevedesse un’attribuzione certa e definitiva della prededucibilità, con una formulazione (quanto più semplice ed elementare possibile) tale da escludere il rischio di “ripensamenti” successivi” (Lamanna, op.cit.).

Dopo il secondo comma del medesimo articolo viene poi inserito un nuovo comma che prevede che il Tribunale possa autorizzare anche durante il procedimento di preconcordato, o di omologa degli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis L.F., o di esame del preaccordo, finanziamenti in via d’urgenza, proponendo una distinzione tra un tipo di finanziamento e l’altro, quello regolato dal primo comma e quello ora regolato dal comma 3, in base al discrimine dell’urgenza, quasi a voler suggerire che i finanziamenti previsti dal primo comma sono, invece, privi di tale requisito.

L’art. 169 bis l.f. oltre a essere stato significativamente modificato nel “titolo” (ora Contratti pendenti) è stato così modificato:

I. Il debitore con il ricorso di cui all’articolo 161 o successivamente può chiedere che il Tribunale o, dopo il decreto di ammissione, il giudice delegato con decreto motivato sentito l’altro contraente, assunte, ove occorra, sommarie informazioni, lo autorizzi a sciogliersi dai contratti in corso di esecuzione alla data della presentazione del ricorso. Su richiesta del debitore può essere autorizzata la sospensione del contratto per non più di sessanta giorni, prorogabili una sola volta. Lo scioglimento o la sospensione del contratto hanno effetto dalla comunicazione del provvedimento autorizzativo all’altro contraente.

II. In tali casi, il contraente ha diritto ad un indennizzo equivalente al risarcimento del danno conseguente al mancato adempimento. Tale credito e’ soddisfatto come credito anteriore al concordato, ferma restando la prededuzione del credito conseguente ad eventuali prestazioni eseguite legalmente e in conformità’ agli accordi o agli usi negoziali, dopo la pubblicazione della domanda ai sensi dell’articolo 161.

III. Lo scioglimento del contratto non si estende alla clausola compromissoria in esso contenuta.

IV. Le disposizioni di questo articolo non si applicano ai rapporti di lavoro subordinato nonché ai contratti di cui agli articoli 72, ottavo comma, 72 ter e 80 primo comma.

V. In caso di scioglimento del contratto di locazione finanziaria, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed e’ tenuto a versare al debitore l’eventuale differenza fra la maggiore somma ricavata dalla vendita o da altra collocazione del bene stesso avvenute a valori di mercato rispetto al credito residuo in linea capitale. La somma versata al debitore a norma del periodo precedente e’ acquisita alla procedura. Il concedente ha diritto di far valere verso il debitore un credito determinato nella differenza tra il credito vantato alla data del deposito della domanda e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene. Tale credito e’ soddisfatto come credito anteriore al concordato.

E’ ora espressamente previsto che  il debitore possa chiedere l’autorizzazione a sciogliersi dai contratti in corso di esecuzione non solo con il ricorso di cui all’articolo 161, ma anche successivamente, superando così i dubbi che sul punto erano stati posti in passato. Inoltre è ora previsto espressamente che  lo scioglimento o la sospensione del contratto abbiano  effetto dalla comunicazione del provvedimento autorizzativo all’altro contraente. L’efficacia dell’autorizzazione non è quindi retroattiva, ma opera ex nunc ed è sempre condizionata (sia nell’an, che quanto a decorrenza) alla comunicazione dell’intervenuta autorizzazione alla controparte contrattuale, e ciò per l’evidente ragione che il debitore potrebbe eventualmente anche rinunciare allo scioglimento, anche dopo aver ottenuto l’autorizzazione.

Con particolare riguardo al contratto di leasing, il  D.L. n. 83/2015 estende al concordato le norme dettate in tema di fallimento e  specifica ora che, in tal caso, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ma è tenuto anche  a versare al debitore l’eventuale differenza fra la maggiore somma ricavata dalla vendita o da altra collocazione del bene stesso avvenute a valori di mercato rispetto al credito residuo in linea capitale; la somma che in tale ipotesi venga versata al debitore resterà acquisita alla procedura. Sia che il prezzo ricavato sia tale da assorbire per intero il credito residuo in linea capitale, sia che riesca a compensarlo solo in parte, comunque la soddisfazione avviene in tal caso fuori concorso, ossia in via prededucibile, poiché si attua direttamente sul ricavato, e la restituzione al fallimento è prevista solo in caso di eccedenza del differenziale positivo.

Il concedente ha peraltro il diritto di far valere verso il debitore anche il credito maturato prima del concordato, che verrà determinato nella differenza tra il credito vantato alla data del deposito della domanda e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene, credito da soddisfare però, in tal caso, come credito anteriore al concordato.

E’ stato, poi introdotto l’art. 163-bis, rubricato, Offerte concorrenti, il quale prevede che quando il piano di concordato di cui all’articolo 161, secondo comma, lettera e) comprende una offerta da parte di un soggetto già individuato avente ad oggetto il trasferimento in suo favore e verso un corrispettivo in denaro dell’azienda o di uno o più rami d’azienda o di specifici beni, il commissario e’ tenuto a valutare, motivando le proprie conclusioni, la congruità dell’offerta, tenuto conto dei termini e delle condizioni della stessa, del corrispettivo e delle caratteristiche dell’offerente.

L’offerta e il piano possono prevedere che il trasferimento abbia luogo prima dell’omologazione. Nel caso in cui il commissario ritenga, alla luce di manifestazioni di interesse comunque pervenute, del valore dell’azienda o del bene, che l’offerta contemplata dal piano possa non corrispondere al miglior interesse dei creditori, chiede al tribunale, con istanza motivata, di aprire un procedimento competitivo.

Il tribunale, sentito il commissario, decide sull’istanza ovvero dispone d’ufficio l’apertura di un procedimento competitivo, tenuto conto del valore dell’azienda o del bene, nonché della probabilità di conseguire una migliore soddisfazione dei creditori. Il decreto che dispone l’apertura del procedimento competitivo stabilisce le modalità di presentazione di offerte irrevocabili, prevedendo che ne sia assicurata in ogni caso la comparabilità, i requisiti di partecipazione degli offerenti, le forme e i tempi di accesso alle informazioni rilevanti, gli eventuali limiti al loro utilizzo e le modalità con cui il commissario deve fornirle a coloro che ne fanno richiesta, la data dell’udienza per l’esame delle offerte, le modalità di svolgimento della procedura competitiva, le garanzie che devono essere prestate dagli offerenti e le forme di pubblicità del decreto. L’offerta peraltro diviene  irrevocabile dal momento in cui viene modificata l’offerta in conformità a quanto previsto dal decreto di cui al presente comma e viene prestata la garanzia stabilita con il medesimo decreto. Le offerte, da presentarsi in forma segreta, non sono efficaci se non conformi a quanto previsto dal decreto e, in ogni caso, quando sottoposte a condizione.

Le offerte sono rese pubbliche all’udienza fissata per l’esame delle stesse, alla presenza degli offerenti e di qualunque interessato. Se sono state presentate più’ offerte migliorative, il giudice dispone la gara tra gli offerenti. La gara può avere luogo alla stessa udienza o ad un’udienza immediatamente successiva e deve concludersi prima dell’adunanza dei creditori, anche quando il piano prevede che la vendita o l’aggiudicazione abbia luogo dopo l’omologazione. In ogni caso, con la vendita o con l’aggiudicazione, se precedente, a soggetto diverso da colui che ha presentato l’offerta di cui al primo comma, quest’ultimo e’ liberato dalle obbligazioni eventualmente assunte nei confronti del debitore e in suo favore il commissario dispone il rimborso delle spese e dei costi sostenuti per la formulazione dell’offerta entro il limite massimo del tre per cento del prezzo in essa indicato. Il debitore deve modificare la proposta e il piano di concordato in conformità all’esito della gara.

Infine è stato introdotto l’art. 182 septies rubricato “Accordo di ristrutturazione con intermediari finanziarie e convenzione di moratoria” il quale prevede che quando un’impresa ha debiti verso banche e intermediari finanziari in misura non inferiore alla metà dell’indebitamento complessivo, la disciplina di cui all’articolo 182-bis, in deroga agli articoli 1372 e 1411 del codice civile, e’ integrata dalle disposizioni contenute nei commi secondo, terzo e quarto. Restano fermi i diritti dei creditori diversi da banche e intermediari finanziari.

L’accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’articolo 182-bis può individuare una o più categorie tra i creditori di cui al primo comma che abbiano fra loro posizione giuridica e interessi economici omogenei. In tal caso, con il ricorso di cui al primo comma di tale articolo, il debitore può chiedere che gli effetti dell’accordo vengano estesi anche ai creditori non aderenti che appartengano alla medesima categoria, quando tutti i creditori della categoria siano stati informati dell’avvio delle trattative e siano stati messi in condizione di parteciparvi in buona fede e i crediti delle banche e degli intermediari finanziari aderenti rappresentino il settantacinque per cento dei crediti della categoria. Una banca o un intermediario finanziario può essere titolare di crediti inseriti in più’ di una categoria. I creditori ai quali il debitore chiede di estendere gli effetti dell’accordo sono considerati aderenti all’accordo ai fini del raggiungimento della soglia del sessanta per cento di cui al primo comma dell’articolo 182-bis.  Ai fini di cui al precedente comma non si tiene conto delle ipoteche giudiziali iscritte dalle banche o dagli intermediari finanziari nei novanta giorni che precedono la data di pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese. Il debitore, oltre agli adempimenti pubblicitari già previsti, deve notificare il ricorso e la documentazione di cui al primo comma dell’articolo 182-bis alle banche e agli intermediari finanziari ai quali chiede di estendere gli effetti dell’accordo. Per costoro il termine per proporre l’opposizione di cui al quarto comma del medesimo articolo decorre dalla data della notificazione del ricorso. Il tribunale procede all’omologazione previo accertamento che le trattative si siano svolte in buona fede e che le banche e gli intermediari finanziari ai quali il debitore chiede di estendere gli effetti dell’accordo:

a) abbiano posizione giuridica e interessi economici omogenei rispetto a quelli delle banche e degli intermediari finanziari aderenti;

b) abbiano ricevuto complete ed aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore nonche’ sull’accordo e sui suoi effetti, e siano stati messi in condizione di partecipare alle trattative;

c) possano risultare soddisfatti, in base all’accordo, in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili.

Quando fra l’impresa debitrice e una o più banche o intermediari finanziari viene stipulata una convenzione diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi attraverso una moratoria temporanea dei crediti nei confronti di una o più banche o intermediari finanziari e sia raggiunta la maggioranza di cui al secondo comma, questa, in deroga agli articoli 1372 e 1411 del codice civile, produce effetti anche nei confronti delle banche e degli intermediari finanziari non aderenti se questi siano stati informati dell’avvio delle trattative e siano stati messi in condizione di parteciparvi in buona fede, e un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), attesti l’omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici fra i creditori interessati dalla moratoria.

In tal caso, le banche e gli intermediari finanziari non aderenti alla convenzione possono proporre opposizione entro trenta giorni dalla comunicazione della convenzione stipulata, accompagnata dalla relazione del professionista ai sensi dell’articolo 67, terzo comma, lettera d). La comunicazione deve essere effettuata, alternativamente, mediante lettera raccomandata o posta elettronica certificata. Con l’opposizione, la banca o l’intermediario finanziario puo’ chiedere che la convenzione non produca effetti nei suoi confronti. Il tribunale, con decreto motivato, decide sulle opposizioni, verificando la sussistenza delle condizioni di cui al comma quarto, terzo periodo. Nel termine di quindici giorni dalla comunicazione, il decreto del tribunale è reclamabile alla corte di appello, ai sensi dell’articolo 183.

In nessun caso, per effetto degli accordi e convenzioni di cui ai commi precedenti, ai creditori non aderenti può essere imposta l’esecuzione di nuove prestazioni, la concessione di affidamenti, il mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti esistenti o l’erogazione di nuovi finanziamenti.

2 luglio 2015Luciana Cipolla – l.cipolla@lascalaw.com

Prodotti «trappola» l’alt della Consob a banche e promotori

Gli operatori finanziari dovranno «astenersi dall’offerta e dal collocamento al retail degli strumenti finanziari a complessità molto elevata, spesso opachi e poco comprensibili per i piccoli risparmiatori». La raccomandazione, da ieri, oltre che dal buonsenso è dettata anche dalla Consob: rivolta a tutti gli intermediari attivi in Italia (dalle banche ai promotori finanziari) è stata pensata dalla Commissione a tutela dei piccoli risparmiatori che da sempre rappresentano la componente del mercato meno consapevole e pertanto più debole e indifesa. 
Nel dettaglio — spiega in una nota la Commissione di vigilanza presieduta da Giuseppe Vegas — gli intermediari dovranno compiere una scelta a livello di massimo vertice aziendale su come impostare le proprie politiche commerciali in materia di prodotti finanziari complessi. E qualora gli stessi intermediari si discostassero da tali indicazioni, sarà necessaria una scelta consapevole assunta dai vertici aziendali accompagnata da una serie di precauzioni in fase di collocamento, tra cui limiti dimensionali e operativi per l’investimento. Inoltre, le scelte compiute dovranno essere comunicate alla Consob entro un mese.
La comunicazione da ieri operativa in Italia anticipa in parte alcuni elementi della prossima direttiva europea in materia di prestazione dei servizi d’investimento (la cosiddetta Mifid 2), in vigore dal gennaio 2017, che impone specifici obblighi di product governance agli intermediari e attribuisce alle Autorità nazionali di vigilanza sui mercati finanziari un esplicito potere di vietare agli intermediari il collocamento al retail di prodotti finanziari considerati «pericolosi».

Paga la banca che «dribbla» l’ordine del giudice tutelare

Va condannata la banca che abbia gestito i capitali di un minore in maniera difforme alle disposizioni del giudice tutelare. E se l’investimento sbagliato, concluso dal genitore nella qualità di tutore del figlio, ne ha pregiudicato il patrimonio, sarà l’istituto di credito a dover corrispondere le somme perse. Lo precisa il Tribunale di Cassino, giudice Eramo, con la sentenza 792/15.
Apre il caso la decisione dei genitori di una bimba (tra l’altro malata in conseguenza di colpa medica riconosciuta), di citare in giudizio due istituti di credito, per ottenere sia l’annullamento e la risoluzione per inadempimento del contratto di mandato – e di tutti i contratti, operazioni e ordini di acquisto conclusi dal padre della piccola nella sua qualità di tutore – che il risarcimento del danno subito per le manovre rischiose eseguite in difformità alle indicazioni del giudice. In via subordinata, la coppia agisce perché sia riconosciuta la “doppia” responsabilità delle banche: contrattuale, per violazione dell’obbligo di diligenza (articolo 1226, Codice civile) e precontrattuale (articolo 1440, Codice civile) per violazione del dovere di informazione su operazioni non autorizzate o rischiose per l’incapace. Domande per lo più accolte, anche grazie alle risultanze della Ctu.
I genitori della minore, infatti, consultatisi con i consulenti bancari, avevano chiesto al giudice di investire le somme depositate sul libretto della figlia in modo diversificato, attraverso operazioni su fondi a basso profilo di rischio. Ma, ottenuto il via libera al reimpiego del capitale, la banca aveva sottoscritto – con la collaborazione di un altro istituto – titoli adatti ad investitori speculativi (bond argentini), disattendendo le istruzioni dell’organo tutelare. Il perito, poi, in risposta a specifico quesito, ha determinato quali somme sarebbero state disponibili per la minore e quale sarebbe stata la consistenza del suo patrimonio, se si fosse provveduto all’investimento in titoli con caratteristiche e rendimenti identici a quelli autorizzati o indicati nel prospetto di gestione patrimoniale proposto dalla banca stessa ai genitori della piccola.
Ebbene, era certo – secondo la relazione – che gli investimenti conclusi non fossero né conformi al provvedimento giudiziale, né aderenti agli interessi della minore. Da sottolinearsi, inoltre, l’inadeguatezza dell’operazione bancaria, tenuto conto della «particolarità della situazione» in cui era coinvolto un minorenne «vittima di colpa medica». Ad aggravare la posizione processuale dell’istituto di credito, la circostanza che vi fosse una sentenza già pronunciata, per cui la banca non poteva disattendere o far passare in secondo piano tali elementi «che impedivano il ricorso a strumenti finanziari confacenti più ad adulti che rischiano in proprio». Responsabilità più marcata alla luce del principio – sancito dall’articolo 3 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza – per cui «ogni decisione, azione legislativa, provvedimento giuridico, iniziativa pubblica o privata di assistenza sociale» va adottata alla luce dell’interesse superiore del bambino.
Accolte, perciò, le richieste formulate dalla coppia con restituzione delle perdite subite dal minore. Bocciata, invece, la domanda risarcitoria, per mancata produzione di elementi utili a una valutazione, pur equitativa, del danno.

«Atene sbaglia ma Berlino stia attenta O scatenerà una rivolta degli spiriti»

Professor Monti, come va a finire? 
«Il negoziato continua. È in evoluzione ora per ora. La posizione del governo greco, per quanto disordinata, sta cambiando: Atene è disposta ad accettare più cose di prima. E nell’Eurogruppo c’è una vasta disponibilità a riprendere in esame il dossier».
Ma la Merkel dice che bisogna aspettare il referendum.
«Il più rigido mi pare Schäuble».
Se lei dovesse scommettere, punterebbe sull’uscita della Grecia dall’euro, o contro?
«Il tentativo è offrire a Tsipras qualcosa di più, in modo da indurlo a passare dal no al sì al referendum. È possibile un accordo su basi diverse dal passato: meno privatizzazioni, meno disagio sociale, una lotta più forte all’evasione e alla corruzione. Tutti i sondaggi indicano che il sì è in rimonta. E che la grande maggioranza dei greci, tra il 70 e l’80%, non vuole il ritorno alla dracma. Io, oltre a un grande amore, ho una grande fiducia nel popolo greco».
Ma la Grecia non ha gravi responsabilità?
«Certo. Se la situazione è così complessa, la responsabilità è di Atene molto più che di Bruxelles: dei governi degli ultimi decenni, e anche di Tsipras e Varoufakis, che in pochi mesi con i loro comportamenti egocentrici hanno dilapidato il patrimonio di simpatia conquistato con la vittoria elettorale».
L’Europa però non ha certo dato prova di lungimiranza.
«Qui si fa confusione. La troika non vuol dire l’Europa. E non sono mai stato tanto convinto come ora di aver fatto bene a imporre all’Italia uno sforzo che ci ha evitato la troika».
È sicuro che valesse la pena fare sacrifici, senza veder migliorare le condizioni delle famiglie e delle imprese ?
«La troika significa umiliazione e politica neocoloniale. Noi l’abbiamo evitata. Nel novembre 2011 i tassi erano quasi all’8%. Oggi i tassi sono sotto controllo».
Grazie alla Bce di Draghi.
«Il presidente Draghi non avrebbe potuto fare quel che ha fatto, se l’Italia non avesse avviato le riforme strutturali, a cominciare da quella delle pensioni, e non avesse messo ordine nei conti. Sarebbe stato accusato di favorire il proprio Paese. È stato un lavoro di punta e di tacco: prima la Merkel, al consiglio europeo 2012, si persuade a dire che gli interventi di stabilizzazioni sono giustificati; poi viene il tacco della Bce, che avvia gli interventi».
Ma dove sono oggi i frutti dei sacrifici imposti dal suo governo, che hanno depresso l’economia?
«L’economia italiana cresce la metà rispetto ai Paesi dell’Eurogruppo da 15 anni. Non è stato il mio governo a deprimerla. Anzi, con le riforme che abbiamo avviato, proseguite dai miei successori, abbiamo posto le basi per la ripresa. Quelle cose non le abbiamo fatte perché ce le ha chieste l’Europa. Le abbiamo fatte nell’interesse e per la dignità dell’Italia. Le ricordo che siamo l’unico Paese dell’Europa del Sud, Francia compresa, a essere uscito dalla procedura d’infrazione».
Il partito di Berlusconi dà una versione molto diversa di quella svolta. Parla di una cospirazione internazionale per mettere lei al suo posto.
«Sono andato a riascoltarmi il videomessaggio di Berlusconi del 24 ottobre 2012. Dice testualmente che da questa sindrome rivelatasi paralizzante “siamo infine usciti con la scelta responsabile, fatta giusto un anno fa, con molta sofferenza ma con altrettanta consapevolezza, di affidare la guida provvisoria del Paese in attesa delle elezioni politiche al senatore e tecnico Mario Monti, espressione di un Paese che non ha mai voluto partecipare alla caccia alle streghe. Il presidente del Consiglio e i suoi collaboratori hanno fatto quel che hanno potuto, cioè molto…”».
Oggi c’è Renzi. Sta guidando o sta seguendo?
«Guidando?».
Professore, ci siamo capiti: l’Italia di Renzi ha un ruolo attivo, o va a rimorchio degli altri?
«Preferirei evitare di parlare di Renzi. Non ne ho titolo: non siedo ai tavoli della trattativa».
È il presidente del Consiglio. Avrà un’opinione su di lui.
«Posso dirle questo. Renzi ama ripetere che in Europa occorre meno burocrazia e più politica. È una frase di grande grossolanità. A quale politica si riferisce? Se politica significa andare ai vertici pensando solo agli interessi di casa propria, ai sondaggi, alle elezioni successive, allora di politica ce n’è fin troppa. Se i leader, e parlo in generale, si imprigionano nello schema delle 140 battute di un tweet, allora non sono leader, ma follower. Se pensano ai dibattiti tv, dove prevali se esprimi un concetto in dieci secondi, allora saranno i populisti a prevalere; perché in dieci secondi riesci a esprimere solo tesi populiste. Era anomalo che il consiglio europeo si occupasse soltanto delle crisi finanziarie, e non dei populismi nascenti. Ora la situazione è più pericolosa. Guai a privilegiare gli interessi nazionali. Serve un Kohl, capace di perdere le elezioni pur di salvare il disegno dell’euro, che i tedeschi non volevano».
Ora c’è la Merkel. Sta vincendo la partita? O la sta perdendo?
«La Merkel vince solo se tiene la Grecia dentro l’euro e favorisce l’accordo finale. Se invece si avesse la sensazione che la Merkel e Schäuble non hanno voluto l’accordo, in Europa ci sarebbe una rivolta degli spiriti, un tumulto delle anime: uno scenario drammatico, per l’Europa e per la Germania».
Appunto: se dall’euro la Grecia dovesse uscire, cosa accadrebbe?
«Come ha detto Draghi, sarebbe un’esperienza del tutto nuova per tutti. È difficile prevedere le reazioni dei mercati, se venisse meno la certezza dell’irreversibilità della moneta unica. Qualcuno potrebbe avere la tentazione di scommettere contro altri Paesi».
Contro l’Italia?
«No. Di questo sono certo: non sarebbe l’Italia l’anello debole della catena».
Quale allora?
«Spagna e Portogallo sono messe peggio di noi, che pure abbiamo un rapporto debito pubblico-Pil più alto. Ma pensiamo piuttosto a evitare questo scenario».
Resta il fatto che l’Europa non è stata all’altezza della situazione .
«Ma l’Europa non sta violando la democrazia greca, come non ha violato la democrazia italiana. Quelle che chiamiamo regole europee non sono fatte per il piacere di qualche burocrate, ma per i greci di domani, per gli italiani di domani; per impedire di continuare a fare debiti per stare meglio oggi, e fare poi stare molto peggio i nostri figli e nipoti. Sono certo che i greci lo comprenderanno, e daranno prova di aver compreso. E io conto di poter ripetere quel che dissi nell’estate 2011, e che ora mi viene rinfacciato».
Si riferisce al video, oggetto di ironie in Rete, in cui lei indica nella Grecia il maggior successo dell’euro?
«Lo dissi da Gad Lerner. E sono convinto che presto potrò rivendicarlo: senza il pungolo della moneta unica, la Grecia non si sarebbe mai messa sulla via delle riforme per sconfiggere la corruzione, il clientelismo, l’evasione fiscale, e rendere il proprio sistema economico moderno e competitivo. Lo stesso concetto, ovviamente in una scala e in una situazione diverse, vale per l’Italia. Se vogliamo la ripresa, quella vera, anche gli italiani devono cambiare i loro atteggiamenti».

Rimborsi Iva a rilento

A febbraio 2015 sono state presentate le domande di rimborso Iva 2014 superiori a 15 mila euro, contenenti il Visto di Conformità ai sensi del al 175/2014. Tutti sappiamo, infatti, che da quest’anno, grazie al suddetto decreto, è possibile presentare la dichiarazione Iva senza stipulare necessariamente una garanzia obbligatoria, ma allegando, al suo posto, il Visto di Conformità apposto da un professionista.

Questa opportunità ha dato la possibilità alle imprese di risparmiare, contenendo tempi e costi e semplificando le procedure di rimborso dell’Iva. Si tratta di una novità positiva, vista la quantità di imprese che sempre più aumentano i crediti Iva verso l’erario. Sfortunatamente, non è tutto oro quello che luccica, almeno per quanto riguarda quello che sta avvenendo in Piemonte. La procedura di partenza è stata la solita: a febbraio la presentazione della Dichiarazione Iva con la richiesta di rimborso, a marzo 2015 gli uffici periferici hanno richiesto la documentazione prevista dalla procedura, ad aprile il concessionario, Equitalia, ha richiesto le dichiarazioni sostitutive. Purtroppo, dopo questa data tutto si è fermato, non tanto per la mancanza del denaro destinato ai rimborsi, ma perché, come da informazioni ricevute dall’ufficio periferico, la Direzione regionale dell’Agenzia delle entrate ha previsto un controllo delle posizioni dei professionisti accreditati, i quali avevano asseverato il credito Iva per abbreviare (ironia della sorte) i tempi di rimborso per i propri clienti. Gli stessi uffici periferici si sono dimostrati impotenti a velocizzare tali procedure, informandoci che questi controlli dovevano essere effettuati esclusivamente dalla Direzione regionale. Siamo arrivati a fine giugno e ancora gli uffici informano che solo una parte di fortunati professionisti sono stati censiti, ma non è ancora arrivato il turno di molti altri.

A questo punto come possono professionisti e cittadini giustificare queste scelte? Che senso ha il meccanismo che ha portato a tali lentezze? È previsto che ogni professionista già iscritto e censito negli elenchi della Direzione regionale ai fini dell’apposizione del Visto di Conformità debba annualmente comunicare gli estremi del rinnovo della polizza R.C., ma allora sorge il dubbio che nessuna operazione di controllo o di aggiornamento sia stata fatta. Oppure che una mole di lavoro così ampia sia stata affidata a solo due o tre funzionari nel capoluogo di provincia. Oppure che i professionisti sono stati poco attivi nell’inviare la documentazione ogni anno alla Direzione regionale. Forse non potremo mai saperlo, ma se da addetti ai lavori capiamo che i controlli vanno fatti ed è necessario valutare tutto attentamente, d’altra parte ci risulta difficile giustificare una legge che da un lato avrebbe dovuto semplificare e velocizzare questo percorso, ma che dall’altro penalizza le imprese, costrette a subire i lunghi tempi di un controllo non sul merito di quanto richiedono e nemmeno su loro stessi, ma su soggetti terzi. Mi immagino quanti dubbi e preoccupazioni sorgeranno alle imprese che, intimamente, si chiederanno se tutto sommato sarebbe stato meglio sostenere maggiori costi ma premunirsi di garanzie che avrebbero evitato questa impasse. Mi chiedo, infine, se soluzioni alternative non fossero e non siano impossibili da attuare. Ad esempio, se non fosse stato più semplice demandare il compito agli uffici periferici sul territorio, distribuendo il controllo tra tutti i funzionari presenti in provincia. Probabilmente avrebbero concluso più velocemente questa fase di controllo. Quanto dovremo aspettare ancora?

«Cdp più incisiva col nuovo vertice»

L’Iri è un capitolo chiuso. E, se anche questo era il tema del dibattito organizzato dalla Fondazione Rcs, presieduta da Piergaetano Marchetti, e moderato dal direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana, si è virato subito sull’attualità. Sarà la Cdp la nuova Iri? Entrerà in Telecom? Caso ha voluto che sul palco ci fosse Andrea Guerra, consulente del premier (a titolo gratuito e fino a ottobre, quando scade il suo anno di «servizio civile»), che ha spiegato i motivi del ricambio al vertice della Cdp e come dovrebbe evolvere la “vecchia missione” che si sta esaurendo a fronte di conti che non possono tornare più (si veda Il Sole-24Ore del 16 giugno: «La spending review manda i margini in rosso»). «Nuova Iri no», ha sentenziato secco Guerra. Perchè il mondo in cui operano le nostre imprese è radicalmente cambiato nell’ultimo decennio. «È un nuovo mondo senza confini geografici e di business, dove la tecnologia è cambiata – spiega – D’altra parte c’è un’Europa che pone vincoli straordinariamente alti agli aiuti di Stato. Ma non si può non constatare che siamo in una fase in cui il mondo ha accelerato, mentre l’Italia si è fermata. Ora, grazie anche alle riforme avviate da questo Governo, c’è una possibilità di ripresa, ma manca ancora qualcosa». 
Secondo Guerra, «è evidente che in Italia non abbiamo un mercato dei capitali, che abbiamo un deficit di infrastutture tecnologico-digitali clamoroso, che facciamo fatica a muoverci all’estero pur essendo un Paese vocato all’export». Quindi: «Abbiamo bisogno di un mercato dei capitali, di creare digitalizzazione, di aiutare le imprese a internazionalizzarsi. Tre temi che nessun Governo può ignorare». E per arrivare al punto, il ricambio al vertice di Cdp «si poteva gestire meglio», ammette, «ma Cdp ha un piano industriale che è stato completato e ora c’è bisogno di maggior incisività e maggior proattività». «Aspettiamo il nuovo team e poi prendiamoci le responsabilità, senza nessuna volontà di stravolgere i compiti della Cdp. Che può fare molto di più, salvo investire in aziende decotte, ma questo è il minimo sindacale!». Responsabilità? «Io ho cercato disperatamente di far sì che trovasse un accordo con Metroweb: non è andata. Non è però che i nostri concorrenti nel mondo sono tutti “puri e agnellini”: nel capitale di Orange c’è la Cdp francese, in quello di Deutsche Telekom la Cdp tedesca. In Telecom succedono una serie di cose, poi se uno vuole prendersi le responsabilità se le prende». Alla domanda se allora la Cdp dovrebbe investire direttamente nel capitale di Telecom, il manager prestato alla politica ha evitato però di esporsi: «Non ho alcuna voce in capitolo sulle strategie future della Cassa». «Dico però che quando al vertice delle aziende ci sono le persone giuste è raro assistere a un insuccesso. Dal mio punto di vista avere dei “talenti” che vogliono lavorare per lo Stato è una grandissima notizia, che fa passare tutto il resto in secondo piano».
Per Mariana Mazzuccato in Italia «non manca il capitale, manca il capitale “paziente”, strategico e di lungo termine». Da sempre fautrice di un intervento diretto dello Stato per sostenere la ricerca e l’innovazione – il modello è la Silicon Valley Usa, non il liberismo inglese («il Regno Unito ha un problema di produttività peggiore dell’Italia», dice) -, l’economista americana osserva che la Cdp si distingue in effetti per «mancanza di strategia». Mentre in Cina, in Brasile, in Germania, in Israele, in Finlandia, in Danimarca ci sono esempi virtuosi di quello che deve essere il ruolo dello Stato nell’economia. «Dirigismo? Sì, perchè hanno deciso la direzione da prendere, fornendo capitali di lungo periodo in modo molto mirato». Lo Stato investitore non deve entrare e uscire dalle aziende, mordi e fuggi, ma «aspettare i profitti per coprire anche le perdite delle operazioni andate male», che nel campo dell’innovazione, inevitabilmente, ci sono.
Massimo Mucchetti, presidente della commissione Industria del Senato (e autore di un capitolo della Storia dell’Iri, curata da Roberto Artoni), ha citato il caso Pirelli, «una delle poche multinazionali vere con una capacità di ricerca e sviluppo notevole». Ebbene, «l’azienda verrà controllata da un conglomerato statale cinese. Cos’è se non una nazionalizzazione? In questo momento Pirelli ha avuto la forza di negoziare che quel che conta resti in Italia. Ma quando gli attuali soci venderanno cosa accadrà?». Negli ultimi anni, nota il giornalista-senatore, «mai un’impresa di certe dimensioni è stata acquisita da capitali italiani: è un caso o le imprese italiane hanno un problema?».

Cinquecento miliardi e cinque salvataggi in soli sei anni ecco le cifre del crac

Il “pre-default” dell’altra notte verso il Fmi, innescato dal mancato saldo della rata da 1,6 miliardi dovuta dalla Grecia all’istituzione di Washington a fine giugno, rischia di non restare senza conseguenze. Ieri, a margine della riunione dell’Eurogruppo, il Fondo salvastati (l’Efsf trasformato in European stability fund), che ha 142 miliardi di crediti verso Atene a fronte dei 21 dell’Fmi, ha reso noto che si riserva di valutare se considerare la Grecia insolvente anche verso di esso, e quindi attivare tutte le procedure del caso, dall’esazione forzata all’accorciamento delle scadenze.
È solo l’ultima tegola che piomba sulle spalle del Paese in questa lunghissima crisi debitoria cominciata il 23 aprile 2010 quando i Paesi europei accordarono alla Grecia i primi 110 miliardi di prestiti bilaterali (poco meno di 10 l’Italia). Poche settimane prima il premier socialista George Papandreou aveva dato a denti stretti l’annuncio: i conti dei governi precedenti erano truccati e anziché il 5 il deficit era del 12% del Pil (alla fine per il 2009 sarà del 15,6). Le agenzie di rating avevano abbassato senza esitazione la quotazione dei buoni del Tesoro fino al livello dei junk-bond e il 3 marzo 2010 Papandreou si era presentato contrito e pallido in Parlamento dando l’annuncio: «Il Paese è a rischio di bancarotta». A meno che, aggiunge, divenga operativo un pacchetto draconiano di misure di risanamento: tagli nella paga dei dipendenti pubblici con la riduzione del 30% dei bonus di Natale e Pasqua (un antico retaggio), aumento dell’Iva del 2% fino al 21 per la maggior parte dei beni, tasse più alte su alcol, tabacco, auto potenti, yacht, congelamento delle pensioni. Era il primo di una serie infinita di piani di austerity (sette compreso quello discusso ieri dall’Eurogruppo) e la premessa all’appello alla solidarietà internazionale accolto dall’Europa con l’appoggio della Bce e dell’Fmi. Oggi la Grecia deve ai creditori internazionali poco meno di 330 miliardi di euro, ma considerando i prestiti nel frattempo condonati o “ristrutturati”, cioè ridotti ( e i pochissimi restituiti), si sfiora l’asticella dei 500 miliardi. È questo il costo complessivo della crisi greca. Finora.
Nessuno aveva allora in mente quello che economisti autorevoli, da Stiglitz a Krugman, ripetevano: bastava prendersi in carico l’indebitamento iniziale, poco più di 100 miliardi spalmati sull’intera comunità internazionale, e la partita si sarebbe chiusa lì. Invece il 2 maggio 2010 i ministri dell’Eurozona accordano alla Grecia altri 120 miliardi di prestiti. I round di finanziamenti saranno quattro in tutto, con una serie di versamenti scaglionati nel tempo. È rimasto in sospeso solo l’ultimo da 7 miliardi. Il 7 maggio 2010 un summit straordinario crea un fondo di salvataggio europeo strutturato, l’Efsf, Fondo europeo di stabilità finanziaria, sede in Lussemburgo e dotazione anticrisi di 750 miliardi di euro. Si parla di eurobond ma i tedeschi fanno muro.
Basta un anno per constatare che i soldi non bastano. Il 24 giugno 2011 altro summit e altro salvataggio. Il dosaggio viene aumentato e si raggiunge l’accordo per 120 miliardi freschi per Atene, in massima parte a carico dell’Efsf, che intanto ha aperto linee di credito minori a favore di Irlanda e Portogallo. Saranno chiuse nel 2012 con la restituzione per intero di un’ottantina di miliardi. Per Atene invece siamo in pieno panico: il 21 luglio 2011, mentre si respira la paura per la tenuta dell’euro, si decide un nuovo piano di salvataggio per la Grecia da 109 miliardi. Le paure di crollo dell’euro penalizzano le economie più esposte come quella italiana: lo spread Btp-Bund raggiunge il record di 575 e porta alla caduta del governo Berlusconi il 9 novembre. Ma torniamo in Grecia. I debiti continuano ad accumularsi, e a complicare la situazione i fondi d’emergenza finiscono per due terzi a pagamento dei debiti con le banche tedesche e francesi, che hanno ingenti finanziamenti bloccati in Grecia, anziché all’economia reale del Paese. Ma in quel momento pochi sembrano notarlo e la centrifuga greca continua a drenare denaro da ogni parte. Il 27 ottobre 2011 parte il primo haircut sulle spalle dei governi (Bce e Fmi conservano il diritto di rimborso pieno): viene tagliato del 50%, in parte cancellato e in parte convertito in titoli a lunghissima scadenza (fino a 45 anni), un pacchetto di 150 miliardi di debiti. Un altro haircut seguirà a breve: senza queste misure il debito sarebbe al 240% del Pil e invece è “solo” al 175.
Il 30 marzo 2012 a Copenaghen l’Eurogruppo vara l’Esm, European Stability Mechanism, dotando la nuova cortina protettiva di 800 miliardi. La Grecia sottoscrive il secondo memorandum d’impegni e parte il quinto round di finanziamenti da 100 miliardi complessivi, erogati per il 93%, che è scaduto l’altra notte. All’inizio le cose si mettono bene: il 10 aprile 2014 la Grecia festeggia il ritorno sui mercati internazionali collocando 3 miliardi di titoli al 4,7%. Il decennale scende dal 44 al 5,7%. Ma è un’illusione. La macchina s’inceppa ancora una volta e all’inizio di quest’anno con l’arrivo di Syriza tutto si blocca.

Draghi non chiude i rubinetti alle banche

Ieri sera, la Banca centrale europea ha deciso di non modificare il suo approccio alla fornitura di liquidità d’emergenza alle banche greche. Negli ultimi mesi, si è trattato dell’unica fonte di finanziamento per gli istituti bancari ellenici e per la Grecia stessa. Aumentarlo dopo che Atene non ha rimborsato la rata da 1,55 miliardi che doveva al Fondo monetario internazionale sarebbe stato impossibile, avrebbe significato rischiare di accumulare perdite. Ridurla, e dunque costringere le banche a restituire denaro, avrebbe voluto dire spingere quasi certamente in bancarotta qualcuna di esse, comprese una o due delle quattro grandi che cadono sotto la supervisione della Bce. 
La riunione del consiglio dei Governatori, guidata da Mario Draghi, ha deciso di mantenere il tetto di denaro che la banca centrale può erogare al livello fissato la settimana scorsa, 89 miliardi. Al momento si suppone che questa quota possa garantire agli istituti di rispondere alle richieste dei cittadini greci. Nonostante le banche siano chiuse da lunedì scorso, infatti, chi ha un conto corrente può prelevare 60 euro al giorno dal bancomat. Attraverso la banca centrale greca, la Bce ha probabilmente una visione abbastanza buona di quale sia la posizione degli istituti, cioè della loro capacità di fare fronte alla domanda. Alcuni analisti, però, dubitano che la situazione sia davvero chiara e temono che qualche banca possa non essere in grado di arrivare alla fine della settimana.
Questo, probabilmente, è stato uno dei temi in discussione nella riunione dei Governatori che si è protratta fino a oltre le 21 di ieri sera. Alcuni banche centrali europee da tempo sono infatti critiche nei confronti della continua erogazione di liquidità di emergenza alla Grecia. Il presidente della tedesca Bundesbank, Jens Weidmann, ha detto che l’operazione dovrebbe essere limitata nel tempo e non costituire un finanziamento al governo, vietato dalla norme che regolano l’attività della Bce; il denaro erogato alle banche, invece, in parte finisce anche a finanziare lo Stato. Dall’altra parte, Draghi e altri banchieri centrali ritengono che ridurre la liquidità al sistema greco in questo passaggio significherebbe innescare uno o più fallimenti che in breve tempo potrebbero portare al crollo dell’intero sistema finanziario greco e all’uscita del Paese dall’euro. La Bce non vuole essere responsabile di un risultato del genere.
La situazione delle quattro grandi banche elleniche – Banca Nazionale di Grecia, Piraeus, Alpha Bank, Eurobank – è già estremamente delicata. Il fatto di avere in portafoglio notevoli quantità di titoli dello Stato le condanna a seguire il destino del Paese. Il quale, questo è l’elemento chiave, martedì è andato in “arretrato” (cioè non ha onorato) una rata di debito in scadenza presso il Fondo monetario internazionale (evento mai accaduto per un Paese occidentale). Già oggi, l’agenzia di rating Fitch pone le banche greche in restricted default: significa che non hanno rispettato le obbligazioni che avevano preso ma non sono ancora in bancarotta. In questa situazione in bilico, basta un passo falso per precipitare una crisi incontrollabile.
Di fronte alla scarsità di liquidità negli istituti di credito, alcuni analisti non escludono che il governo di Atene debba restringere ulteriormente i controlli messi in essere da lunedì scorso, cioè ridurre il tetto di 60 euro prelevabili giornalmente.

730 precompilato al 23 luglio

I Caf e i professionisti abilitati potranno, entro il 23 luglio, e non più il 7 luglio, completare la consegna al contribuente di copia della dichiarazione elaborata, del prospetto di liquidazione nonché la comunicazione delle dichiarazioni e la trasmissione in via telematica all’Agenzia delle entrate del 730 precompilato.

Lo spostamento della data a condizione che abbiano presentato, entro il 7 luglio 2015, almeno l’80% delle dichiarazioni. È questo il contenuto dell’articolo 1 sull’attività di assistenza fiscale per l’anno 2015 del dpcm firmato ieri da Pier Carlo Padoan, ministro dell’economia, e Matteo Renzi, presidente del consiglio che stabilisce la proroga degli invii del 730 precompilato.

Il rinvio, dato per certo dai professionisti che in questi giorni stanno portando avanti la campagna 730 online 2015, si applicherà in buona sostanza al residuo 20% delle trasmissioni. Il tutto per garantire che i conguagli da parte dell’Agenzia delle entrate arrivino puntuali nelle buste paghe dei contribuenti a luglio. Lo slittamento si applica però esclusivamente ai Caf e agli intermediati non ai singoli contribuenti che faranno da soli la dichiarazione. Attualmente 1.200.000 contro quasi 10 milioni di dichiarazioni scaricate massivamente dai Caf.

In questi giorni inoltre i Caf hanno pressoché ultimato la gestione dei 730/4 per i pensionati. Anche in questo caso il rispetto del timing è stato dettato dalla necessità di far smaltire le pratiche all’istituto di previdenza che eroga le pensioni per far avere entro agosto i rimborsi dovuti.

Nei preamboli del decreto si legge che la proroga è stata concessa per il corretto svolgimento dei relativi adempimenti legati alle precompilate, tenendo conto delle esigenze dei contribuenti e dell’amministrazione finanziaria.

E proprio sulle tempistiche dei pagamenti dal sito dell’Agenzia delle entrate fanno sapere che se dalla dichiarazione emerge un credito o un debito il relativo rimborso o trattenuta avviene con le stesse modalità del 730 ordinario.

Quindi, se dal 730 precompilato, accettato senza modifiche oppure modificato, emerge un credito da rimborsare, il contribuente otterrà il rimborso direttamente dal datore di lavoro o dall’ente pensionistico. Se, viceversa, emerge un debito, il datore di lavoro o l’ente pensionistico effettuerà la trattenuta. La somma sarà accreditata (o trattenuta) nella busta paga o nella rata di pensione a partire, rispettivamente, da luglio e agosto/settembre.

Swap nulli se manca il recesso

Dopo cinque anni di battaglie giudiziarie in tutte le sedi, il Comune di Prato ottiene dalla Corte di Londra la dichiarazione di nullità degli swap firmati a partire dal 2002 con Dexia Crediop per coprire un sottostante da 67,5 milioni fra mutui e Boc, rinegoziati nel 2006 dopo che i flussi finanziari erano girati in negativo per il Comune e annullati in autotutela nel 2010 quando una consulenza indipendente aveva sostenuto la presenza di «costi occulti» per 4,9 milioni di euro e una spesa di 9 milioni per una chiusura anticipata. L’annullamento in autotutela era stato respinto in successive pronunce dal Tar, per assenza dei presupposti di legge, ma il Comune aveva nel frattempo stoppato i pagamenti e Dexia si era rivolta alla Corte inglese.
Prato festeggia il fatto di essere il primo Comune italiano a uscire vincitore da un giudizio inglese contro un istituto di credito, ma la notizia chiave è nelle motivazioni, che prendono una strada diversa dai temi consueti dei «costi impliciti» e dalla «convenienza economica»: il giudice inglese ha riconosciuto l’applicabilità al Comune, come a tutti i clienti che non sono operatori qualificati o clienti professionali, del diritto di recesso, perché questo è previsto come «inderogabile» dalla legge italiana. In pratica, il contratto non è valido se non prevede espressamente la possibilità di “pentirsi” entro 7 giorni: i contratti firmati da Prato sono basati sul modello Isda, come la stragrande maggioranza di quelli che negli anni sono stati siglati da enti locali e imprese, e non prevede in modo esplicito il recesso, che è regolato dall’articolo 30 del nostro Testo unico della finanza. La decisione londinese, dunque, può offrire un precedente per tantissimi Comuni.
Il punto è rappresentato dall’applicabilità della legge italiana ai contratti Isda, che pure prevedono esplicitamente Londra come sede delle controversie. Secondo la sentenza, non essendo stata prevista la facoltà di recesso nei contratti, valgono le conseguenze che la legge italiana prevede in caso di omessa previsione: il cliente (ovvero il Comune nel caso di specie) può sempre far valere la nullità dei contratti. Questa regola trova applicazione anche nel caso in cui le parti abbiano scelto la legge inglese come legge del contratto, perché si tratta di una regola inderogabile di diritto italiano.
Il ragionamento svolto dal giudice inglese è abbastanza semplice e chiaro, si snoda lungo un’ampia ricostruzione dei fatti e prende posizione su numerosi punti di diritto italiano. Il giudice inglese ha rilevato che, nel Regno Unito come in Italia, vige la convenzione di Roma I. L’articolo 3, comma 3 della Convenzione prevede che, fermo restando il diritto delle parti di scegliere di assoggettare il contratto a una legge diversa da quella vigente nel Paese in cui è stato concluso, restano valide le norme inderogabili dell’ordinamento di quel Paese. Secondo il giudice inglese, in materia di offerta fuori sede di prodotti finanziari, la disciplina italiana di riferimento (ovvero il Dlgs 58/98) contiene alcune previsioni imperative che restano inderogabili anche se si sceglie di stipulare e documentare operazioni in derivati in base alla legge inglese. Tra le previsioni imperative e inderogabili rientra pacificamente l’articolo 30 del Testo Unico della Finanza, il quale prescrive che in tutti i casi in cui la banca si rechi presso il cliente a proporre la sottoscrizione di investimenti (e a questa attività di sollecitazione segua la stipula di un contratto), il cliente ha diritto di recedere nei sette giorni successivi e questa facoltà va indicata esplicitamente nei moduli contrattuali sottoposti al cliente. In mancanza di questa previsione, i contratti sono nulli e la nullità può essere fatta valere solo dal cliente. Secondo la ricostruzione operata dal giudice inglese, poiché Dexia ha proposto al Comune la sottoscrizione dei sei derivati senza prevedere il diritto di recesso, ne consegue la nullità dei contratti e l’obbligo di restituzione di ogni pagamento ricevuto in base a questi.

Famiglie, sale il potere d’acquisto

Nel primo trimestre del 2015 sale il potere di acquisto degli italiani che però, almeno per il momento, preferiscono mettere da parte i soldi anziché spenderli. Questa, in sintesi, la fotografia scattata dall’Istat, secondo cui da gennaio a marzo il reddito reale delle famiglie, e dunque il loro potere di acquisto, è salito dello 0,6% rispetto al trimestre precedente e dello 0,8% su base annua, incrementi che non si vedevano dal lontano 2007. Si tratta di dati “corretti” per l’inflazione. Senza tenere conto della dinamica dei prezzi, il reddito disponibile delle famiglie in valori correnti, nel primo trimestre, risulta in crescita dello 0,4% rispetto ai tre mesi precedenti e dello 0,6% dall’analogo periodo del 2014.
Nonostante l’aumento dei redditi, la dinamica dei consumi non è apparsa brillante. La spesa delle famiglie per consumi finali, in valori correnti – calcola sempre l’Istat – è diminuita dello 0,2% rispetto al trimestre precedente ed è aumentata dello 0,1% rispetto al corrispondente periodo del 2014. Se gli italiani, da una parte, hanno ridotto i consumi, dall’altra, hanno messo da parte più soldi. Nel primo trimestre, infatti, la propensione al risparmio delle famiglie, al netto della stagionalità, è stata pari al 9,2%, in aumento dello 0,8% dal trimestre precedente e dello 0,6% da un anno prima.
Proprio la riduzione dei consumi degli italiani spinge il sistema delle cooperative (coop) ad affrontare nuove sfide, a partire da quella dell’efficienza, anche sui costi. Tutti temi che ieri sono stati al centro dell’assemblea annuale delle coop presieduta da Marco Pedroni. L’evento ha fornito l’occasione per fotografare il sistema delle coop, che nel 2014, dopo sette anni ininterrotti di crisi dei consumi, ha mostrato una certa tenuta. La quota di mercato si è posizionata intorno al 19% con un fatturato pari a 12 miliardi e 421 mila euro, contro, rispettivamente, il 19,1% e i 12 miliardi e 724 mila euro del 2013. Quanto alla base sociale, nel 2014 ha sfiorato gli 8 milioni e mezzo, con un aumento del 3,1% rispetto al 2013. Una nota di Coop Italia sottolinea una tenuta anche sul versante occupazionale, con 54.591 dipendenti, oltre il 90% dei quali a tempo indeterminato.
Passando dalle famiglie allo Stato, l’Istat sottolinea come il deficit, tra gennaio e marzo, sia sceso al 5,6% del prodotto interno lordo (Pil). Era da otto anni che non si vedeva un valore sotto il tetto del 6 per cento.
Inoltre, la spesa per interessi passivi sul debito pubblico, nel primo trimestre dell’anno in corso, si è ridimensionata del 14% da 16,969 a 14,599 miliardi.

Berlusconi alza il prezzo per cedere Premium a Sky e rilancia su Ei Towers

Il matrimonio tra Sky e Premium, la pay tv di Mediaset, si farà. Serve solo tempo per raggiungere un accordo che soddisfi sia Rupert Murdoch, sia la famiglia Berlusconi. A margine della presentazione dei palinsesti autunnali, tra un sorriso e un «no comment», Pier Silvio Berlusconi, vicepresidente e amministratore delegato del Biscione, ha lasciato poco margine ai dubbi. La prima offerta di Sky da circa 600 milioni è stata respinta, la seconda, non lontana dal miliardo, è per il momento in fase di decantazione.
Sull’opportunità dell’operazione sono ormai d’accordo in molti. L’antitrust europeo non dovrebbe avere obiezioni, d’altra parte sul campo della pay tv ha appena lasciato mano libera a Telefonica in Spagna, e l’authority italiana potrebbe adeguarsi fissando qualche paletto. Il nodo è nella valutazione di Premium.
Per Mediaset la base di partenza della trattativa resta il prezzo pagato da Telefonica per rilevare l’11,1% capitale: 100 milioni, pari a 900 milioni per il 100%. A questa cifra andrebbeo aggiunti altri 100 milioni circa di cassa e un “premio” che il Biscione vorrebbe per lasciare, di fatto, campo libero a Sky sulla televisione a pagamento italiana. In alternativa a Mediaset potrebbero prendere in considerazione anche una fusione in cambio di una quota di minoranza – non inferiore al 30-35% – sufficiente a condizionare la governance. Un anno fa Sky Italia fu valutata 3 miliardi di euro, ma la strada sembra difficilmente percorribile dopo la nascita di Sky Europe.
Un’intesa, però, verrà trovata, ma probabilmente bisognerà aspettare un altro anno. Anche perché da settembre, fino al 2018, Premium avrà in esclusiva la Champions League per la quale ha speso 717 milioni: non tutti sono convinti del ritorno dell’investimeno. Cologno oggi ha 1,7 milioni di abbonati, ma spera di strapparne almeno 500mila dai 4,7 milioni di Sky. I vertici della pay tv satellitare, però, non credono che il travaso sia così facile: nell’ultima stagione, la Champions League era in esclusiva alla piattaforma di Murdoch, ma gli ascolti generali non sono cresciuti in maniera sensibile, rispetto all’anno prima. Sky, quindi, non vorrebbe “strapagare” Premium, prima di capire se l’aggressiva campagna abbonati di Mediaset avrà effettivamente successo.
Berlusconi ha anche parlato di Ei Towers e di Telecom Italia. Se riguardo all’ex monopolista ha escluso un intervento diretto del gruppo nel capitale, «perché il tempo è passato», ma ha lasciato aperta la porta augurandosi collaborazioni sul fronte dei contenuti e delle distribuzione; per quanto riguarda la torri il ragionamento è stato più ampio. Dopo la fallita scalata a Raiway, Mediaset insiste per la realizzare di un progetto industriale di aggregazione nel settore delle torri, anche a costo di perdere la quota di controllo: «Siamo interessati a un progetto industriale e siamo aperti a situazioni non di controllo – ha detto Berlusconi – l’importante è che ci sia un progetto industriale vero che porti alla creazione di valore». Soprattutto per evitare che un settore strategico, attraverso il quale passano tutte le comunicazioni del Paese rischi di finire sotto il controllo di azionisti esteri.
Sempre in tema di tv, ieri, il presidente dell’Upa (Utenti pubblicità associati) Lorenzo Sassoli de Bianchi, ha proposto entro il 2016 la quotazione in Borsa dell’Auditel, la società che rileva gli ascolti. «E’ il risultato di un lungo processo di innovazione ha detto Sassoli – promosso da Upa, e che ha portato all’ingresso di Sky e Discovery nel Consiglio di amministrazione della società, e alla posizione di maggioranza della componente del mercato nello stesso consiglio». Dopo una lunga fase di tensione, Auditel farebbe un ulteriore passo verso «la trasparenza e l’indipendenza ».

Fallimenti, alla Corte Ue l’estinzione dei debiti Iva

Esdebitazione sotto esame alla Corte di giustizia europea. La Corte di cassazione, con ordinanza n. 13542 della Sesta sezione civile, depositata ieri, ha chiamato in causa gli eurogiudici ai quali è sottoposta la questione della compatibilità con il diritto comunitario della disposizione della nuova Legge fallimentare che comprende i crediti tributari, ma in particolare il dubbio è sull’Iva, tra quelli di cui il debitore può essere liberato al termine della procedura.
La Corte parte dalla convinzione che il legislatore che ha riscritto larga parte della Legge fallimentare ha ritenuto, sulla base di un bilanciamento dei diversi interessi coinvolti,«che al soggetto ritenuto dall’autorità giudiziaria meritevole del beneficio dell’esdebitazione, non deve farsi carico del pagamento dei debiti fiscali, in una prospettiva dell’estinzione dei propri debiti quale stimolo a condotte incentivanti e a un ripristino di una soggettività economica ritenuta socialmente utile».
Nel beneficio, visto che non ne sono espressamente esclusi (esclusione che invece scatta per gli obblighi di mantenimento e alimentari e per le obbligazioni che esulano dall’attività d’impresa, i debiti da risarcimento danni da illecito extracontrattuale e le sanzioni penali e amministrative di carattere pecuniario non accessorie a debiti estinti), rientrano anche i debiti Iva, punto sul quale la competenza della Corte di giustizia è evidente, visto che si tratta di un tributo di rilevanza comunitaria. Sotto la lente finisce un’esclusione dal credito riconosciuta al debitore non in maniera astratta, ma sulla base di una valutazione effettuata dal tribunale fallimentare sulla possibilità che l’imprenditore interessato possa tornare nel circuito produttivo.
Una disciplina però che potrebbe presentare profili di compatibilità con le regole della concorrenza «ponendosi detta disciplina, operante sulla base dei requisiti soggettivi già ricordati, come potenzialmente idonea a favorire il reinserimento dei soggetti ammessi al detto beneficio rispetto ai soggetti falliti che non possono godere di tale trattamento perchè esclusi ex lege dall’accesso a simile procedura».
In questione c’è poi anche il fatto che, trattandosi di Iva, fatta rientrare tra le risorse comunitarie, la stessa Corte di giustizia ha in passato affermato che i diversi Stati appartenenti all’Unione, pur nell’ambito di una certa libertà nel’esercizio degli strumenti a loro disposizione, devono assicurare l’effettività della riscossione del tributo. Già in passato la Corte Ue ha bocciato interventi dell’Italia in materia di Iva: nel 2008, per esempio, venne sancita l’incompatibilità della normativa nazionale sul condono del 2002.

Per l’accesso al Durc online l’Inps si scorda i consulenti

La procedura Inps per il Durc online ha funzionato, almeno nel giorno dell’inaugurazione, solo in parte. Infatti, ieri per le richieste di Durc online (Dol) l’Inps ha abilitato i consulenti del lavoro ad agire in misura ridotta. La procedura Dol ha funzionato soltanto dal lato Inail, mentre accedendo dal portale dell’Inps, i consulenti non sono riusciti a visualizzare l’elenco delle aziende per cui hanno la delega a operare. Nessun problema, invece, per i datori di lavoro che si sono accreditati utilizzando le proprie credenziali.
E così, in modo un po’ zoppicante, è partita l’operazione Dol: non è stata accolta la richiesta dei consulenti del lavoro per un rinvio così da evitare difficoltà ed errori, dovuti agli archivi non in linea (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri). L’Inps, contravvenendo a quanto affermato nella circolare 126/2015, non è riuscita a collegare ai consulenti del lavoro le aziende assistite.
Nella circolare, l’Istituto ha affermato, in linea con quanto previsto dall’articolo 6, comma 2 del Dm 30 gennaio 2015 che i consulenti del lavoro nonché i soggetti di cui all’articolo 1 della legge 12/1979, abilitati per legge allo svolgimento degli adempimenti di carattere lavoristico e previdenziale, rientrano tra coloro che possono effettuare la verifica di regolarità nel nuovo sistema per conto delle aziende che hanno conferito loro la delega. Visto che la delega rilasciata dall’azienda al consulente è omnicomprensiva, ci si aspettava che entrando nel portale, venissero proposti i codici fiscali di tutti i datori di lavoro agganciati al professionista, alla stregua di quanto avviene per l’accesso al cassetto previdenziale. In realtà ciò non si è realizzato, per ora, e al consulente è stato proposto l’inoltro della verifica a valere sul proprio codice fiscale, non offrendo la possibilità di fare un’interrogazione per singola azienda.
Questi i passaggi:
• il consulente si entra nel portale Inps con i codici;
• accede a tutti i servizi online;
• dalla lista sceglie «durc online»;
• la prima scelta riguarda il profilo. Le opzioni sono due, vale a dire: «accesso con pin» o «accesso come stazione appaltante – Soa»;
• scegliendo la prima si accede a un’altra finestra; la procedura propone la «richiesta di regolarità» (volendo da un menù, attivabile lateralmente, è possibile accedere alla «lista richieste» o alla «consultazione di regolarità»);
• il passaggio successivo evidenzia, in automatico la Pec del professionista nota all’Inps;
• si giunge alla scelta del profilo. Vi sono presenti sei scelte (quattro riguardano l’azienda e gli autonomi che operano in proprio, le altre due si riferiscono al «delegato» e all’«altro delegato». Quest’ultimo è rappresentato da chiunque abbia interesse munito di apposita delega (nuova figura). I consulenti scelgono «delegato»;
• nel passaggio successivo si può indicare se la delega riguarda dipendenti, collaboratori o autonomi;
• nella finestra seguente è possibile scegliere il codice fiscale del soggetto per cui si chiede il Dol. Qui ci si aspetta di trovare l’elenco delle aziende assistite, invece compare solo il codice fiscale del professionista e se si inoltra la richiesta, il consulente ottiene il Dol intestato a se stesso.

La riscossione «perde» 580 miliardi

Alla carica dei 101. Non si tratta del remake rivisto e corretto dello storico cartone animato della Disney, ma dei 101,4 miliardi di crediti che Equitalia vanta nei confronti dei suoi contribuenti debitori sotto la voce «ruoli in lavorazione». E non è tutto. La cifra diventa monstre se si guarda all’intera montagna dei debitori iscritti a ruolo: al 28 febbraio scorso il carico dei ruoli al netto di sgravi, sospensioni e riscossioni ammonta a 682,2 miliardi di euro. Dunque solo il 15% può essere ancora potenzialmente recuperato dall’agente pubblico della riscossione. E la cautela è d’obbligo. Se si incrociano i dati del carico dei ruoli in pancia a Equitalia, resi noti dall’Economia martedì in un question time in commissione Finanze al Senato, con quelli riportati dall’Esecutivo nella relazione tecnica al decreto attuativo della delega fiscale sulla riscossione, emerge dalla proiezione lineare che a fine anno l’asticella degli incassi da ruolo si assesterà sui 7,8 miliardi di euro e per la metà di questi grazie solo alla rateizzazione dei debiti dei contribuenti.
È stata la senatrice pentastellata Laura Bottici a chiedere all’Economia un aggiornamento puntuale dei ruoli tributari non ancora riscossi. L’ultimo dato risaliva al 25 giugno 2013, come si legge nell’interrogazione del M5S a cui ha risposto il sottosegretario all’Economia, Paola De Micheli, e indicava genericamente un ammontare di ruoli non incassati di 527 miliardi di euro. Ora, dopo due anni, la massa di crediti vantati da Equitalia è salita a 682,2 miliardi ma di questi ben 580,8 miliardi sono inesigibili o quasi, ossia il loro recupero è da considerare impossibile. Ben 127,8 miliardi (pari al 18,7% del totale) sono in procedura concorsuale ovvero legati a soggetti falliti o prossimi al fallimento. Il 44,7%, pari a 304,8 miliardi, sono invece imputati ad azioni cautelari ed esecutive che si sono chiuse senza «soddisfacimento del credito» (tradotto con “un pugno di mosche in mano”). I nullatenenti, invece, hanno debiti con Equitalia per 82 miliardi di euro mentre i soggetti deceduti non hanno saldato ruoli per 66,2 miliardi di euro.
Nella risposta, comunque, la De Micheli ha ricordato che, secondo quanto riportato da Equitalia, per la valutazione della reale e definitiva massa di crediti inesigibili si dovranno attendere le «prescritte comunicazioni di inesigibilità» che stando all’ultima legge di stabilità (190/ 2014) «saranno prodotte per annualità di ruolo a decorrere dall’anno 2017».
Di quei 101,4 miliardi di ruoli in lavorazione almeno 20,7 sono ora interessati dalle rateizzazioni. Uno strumento che sta via via prendendo sempre più piede nel recupero dei debiti erariali. E su cui è intervenuto anche lo schema di Dlgs sulla riscossione approvato in prima lettura nel Consiglio dei ministri di venerdì. Se da un lato infatti diventa più semplice decadere dal piano di ammortamento del debito (basterà saltare 5 pagamenti e non più 8 come avviene adesso, come evidenziato dal Sole 24 Ore del 30 giugno), sarà comunque possibile riattivare la dilazione a condizione che il diretto interessato effettui il pagamento delle rate scadute alla data di presentazione della domanda. E l’importanza delle rateizzazioni emerge proprio dai dati della Ragioneria generale dello Stato: nel 2015 Equitalia incasserà il 23,9% in più rispetto al 2012 attestandosi,come detto, sui 7,8 miliardi di euro. Di questi quasi la metà (48,7% pari a 3,797 miliardi) arriveranno dai pagamenti dilazionati.
E nella «carica dei 101» ci sarà una sempre maggior ricorso all’intelligence per i debitori di cifre elevate. «Dal costante scambio di informazioni tra i soggetti istituzionali preposti a ciascuna delle fasi individuate e da una reale condivisione critica dei flussi informativi, si attendono ritorni positivi – ha affermato il sottosegretario De Micheli – in termini di riscossione delle pendenze debitorie facenti capo, in particolare, ai cosiddetti grandi morosi».

«Tra Mediaset e Vivendi ci sono contatti continui»

L’estate 2015 della finanza inizia con le prove tecniche di alleanza Mediaset e Telecom Italia. Comoplice la «nuova coppia» Pier Silvio Berlusconi e Vincent Bollorè. L’ingresso di Vivendi nell’ex colosso pubblico delle tlc, dopo la contestuale uscita di Telefonica, e di fatto il passagio sotto le insegne francesi, riapre vecchi e mai sopiti rumors di una mega-fusione. Accomunati dagli interessi in Mediobanca, il crocevia della finanza in Italia, in cui sono azionisti Fininvest, la cassaforte della famiglia Berlusconi, e la holding Financiere du Perguet, i due da tempo discutono. Di una fantomatica Tele-Media se ne parla, sempre senza poi nulla di concreto da anni, da almeno una decina. E un matrimonio tra Telecom e Mediaset, inteso come fusione azionaria e societaria, in realtà non esiste e probabilmente non ci sarà mai. Lo stesso Piersilvio è il primo a sgombrare il campo: «Molto difficile». Ci sarebbe anche uno scoglio politico, e le resistenze dei palazzi romani a operazioni finanziare già s’è visto com’è andata a finire con la tentata scalata di Ei Towers, le torri di Mediaset, a RaiWay, bloccata pur essendo un’operazione industriale che aveva senso. Escluso il matrimonio, però, Mediaset e Telecom, via Bollorè, stanno studiando possibili accordi sui contenuti. 

Vuoi vedere che può essere il finanziere bretone, uomo sempre più al centro dello scacchiere del potere in Italia, l’agognato partner che da tempo in casa Berlusconi cercano per la pay-tv? Mediaset Premium, che per i prossimi tre anni avrà la Champions League in esclusiva, è l’atout con cui Piersilvio intende sferrare l’attacco a Rupert Murdoch. Sette anni fa, quando Premium partì, Sky aveva di fatto il monopolio con il 95% del mervato pay-tv in Italia. Oggi è sceso al 70 e Premium è salita al 30%. Percentuale che potrebbe arrivare a tallonare o addirittura pareggiare il concorrente dal prossimo autunno ,con Sky orfana dell’evento che attira più abbonati. La concorrenza ha rotto lo strapotere sulla pay-tv. Ma nel frattempo quella torta si è rimpicciolita: il mercato delle tv a pagamento in Italia soffre la recessione e,a sentire gli analisti, non è in grado di reggere due operatori (destinati peraltro a diventare tre con lo sbarco, sempre in autunno, del colosso americano Netflix, senza dimenticare la start-up Chili di Stefano Parisi): guerra sui prezzi, aumento dei costi e margini bassissimi. Sul mercato si caldeggiava una possibile alleanza sulla pay tra i due arci-rivali. E Sky ci ha anche provato, a dire il vero. Con una super-offerta da 1,1 miliardi, come ricostruito dall’agenzia Radiocor-Il Sole 24 Ore: ma a Cologno hanno detto di no.
Il nome di Vivendi, invece, è uno di quelli che da tempo circolava, accanto al Qatar e ad Al Jazeera. Da due anni si parla di un’alleanza. Nel frattempo è entrata con un pezzetto l’onnipresente Telefonica come controat dell’affaire Digital+, il canale pay spagnolo. Ora Vivendi potrebbe avere le sembianze di Telecom di un possibile accordo sui contenuti, che ieri Piersilvio ha dato quasi per fatto. Di certo strappare il jolly storicamente in mano al concorrente è costato molto: uno sforzo finanziario notevole, circa 700 milioni. Ci vorranno 2-300mila abbonati per andare in pareggio. E’ una scommessa, ma in Mediaset sono civi vincerla. E così si spiega anche il «Proclama di Portofino» di due settimane fa, quando Pirsilvio ha di fatto dichiarato guerra a Sky.
Sta di fatto che fare l’editore tv è sempre più difficile. Ancora una volta, è il quinto anno ormai, il numero uno del gruppo, nell’aprire due giorni fa la serata dei palinsesti l’evento clou per investitori e inserzionisti, si è visto costretto a esordire con la parola «crisi». Nonostante le attese, il 2015 è ancora un anno in trincea, per l’industria dei media e la raccolta pubblicitaria: dopo un primo trimestre in calo, il secondo ha chiuso, secondo le anticipazioni fornite, di fatto fermo rispetto al 2014 (che però era in calo sul 2013, in calo sul 2012). Qualche spiraglio arriva dal rimbalzo di giugno (+6% di raccolta) ma il semestre probabilmente chiuderà in calo. E’ il segnale che l’agognata ripresa,quel +0,7% di Pil stimato per il 2015, se ci sarà non sarà nell’industria dei media. Per questo a Cologno non si sbilanciano. Dopo gli anni terribili 2011-2012 con il maxi-rosso di 230 milioni, ora quantomeno il quadro è stabilizzato e i conti chiudono in equilibrio. Ma Piersilvio sa di muoversi su un terreno scivoloso. «La visibilità rimane bassissima» nè tantomeno si arrischia a fare previsioni su un ritorno al dividendo, che dopo 3 anni di digiuno, il mercato guarderebbe con approvazione.
Come se ne esce? Ci vuole sempre più offerta e multi-medialità. Ecco allora l’altra mossa: Mediaset si compra R101 ed entra nel mondo delle radio. A ben vedere è tutta un’operazione in casa perché comprano dalla Mondadori, anch’essa di proprietà di Berlusconi. Da tampo la casa editrice di Segrate cerca di uscire dalla radio, asset in perdita perenne. Cedendola alla cugina, Mondadori incassa una plusvalenze e deconsolida perdite. Ma per la casamadre Fininvest il saldo contabile sarà zero. Tuttavia il vantaggio industriale in questo spostamento di asset da un’azienda all’altra dello stesso gruppo c’è: radio e libri/riviste non hanno sinergie. Sotto la tv commerciale più grande d’Itlaia, che ogni settimana raggiunge 57 milioni di persone (teoricamente tutta l’Italia), invece radio R101 ha enormi sinergie di contenuti e pubblicità. «E’ un’offerta di mercato» replica il figlio dell’ex premier. Casomai c’è da chiedersi perché non sia stata fatta prima.

Le Borse credono nell’intesa con Atene

A giudicare dai movimenti di ieri, i mercati puntano ancora su un accordo in extremis per la Grecia. O almeno così sembravano pensare, prima che l’ennesimo Eurogruppo partorisse l’ennesima fumata nera e sospendesse le trattative fino all’esito del referendum che si terrà il prossimo fine settimana. Il comunicato di quest’ultimo è però giunto quando almeno in Europa i listini avevano già chiuso i battenti, non c’è stato quindi modo di prendervi le misure: le reazioni, se ci saranno, si vedranno soltanto questa mattina. Wall Street, intanto, ha rallentato un po’ il passo sul finale, conservando soltanto parte dei guadagni di avvio seduta. 
Nel frattempo occorre ricordare come in una giornata contrassegnata inevitabilmente da volatilità e tensione elevata, i listini azionari abbiano annullato parte delle perdite patite nelle sedute precedenti: Milano ha recuperato il 2,15% e altrettanto ha riguadagnato Francoforte, mentre Parigi (+1,94%) e Madrid (1,32%) si sono dovute accontentare di qualcosa in meno. Il bilancio avrebbe potuto essere anche migliore, ma l’intervento pomeridiano del premier greco Alexis Tsipras, che ha continuato a sostenere il “No” al referendum, ha in parte smorzato gli entusiasmi degli investitori.
Lo stesso scenario è più o meno andato in onda sui mercati del reddito fisso, dove si sono fatte scelte dettate da un certo ritorno di appetito verso il rischio da parte degli investitori: acquisti sui titoli di Stato periferici (Grecia compresa) e vendite sul Bund tedesco. Così lo spread italiano si è ridotto a 143 punti base, oltre dieci in meno del giorno precedente, per un rendimento del BTp decennale al 2,24 per cento. La Spagna resta qualche gradino sopra di noi (2,28% e spread a 147), mentre sono ovviamente i tassi dei bond ellenici ad aver fatto il passo indietro più rilevante: il rendimento a dieci anni resta però sopra il 14% e quello a due anni addirittura oltre il 34 per cento. Anche in questo caso il recupero era nettamente più sostenuto verso metà seduta, quando il mercato agiva in scia alle anticipazioni mattutine del Financial Times su una Grecia pronta ad accettare parte delle condizioni richieste dai creditori, e quando la nuova proposta di Atene doveva essere ancora discussa dall’Eurogrupo straordinario del pomeriggio.
Con lo stop alle trattative almeno fino a lunedì, salvo colpi di scena che in una «telenovela» del genere nessuno si sente di escludere, il mercato potrebbe paradossalmente eliminare in via temporanea una fonte di forte volatilità. Lo stillicidio di proposte e controproposte delle parti potrebbe lasciare spazio però a quello legato ai sondaggi, con gli investitori propensi a una fornire una lettura positiva per ogni dato che possa spingere verso il «Sì», e quindi verso un cambiamento politico nel Paese ellenico.
Ci sarà probabilmente modo per veder riemergere anche qualche tema macroeconomico, che ha timidamente fatto capolino ieri. Qualche indicazione favorevole proveniente dall’economia Usa, come si legge nella pagina a fianco, ha infatti aiutato il dollaro a consolidare un recupero che già si era palesato di prima mattina (quando era piuttosto l’euro a indebolirsi, come spesso accade quando l’avversione al rischio si fa meno pressante).
Sotto questo aspetto la situazione potrebbe farsi decisamente più interessante già oggi pomeriggio, quando con un giorno di anticipo rispetto al solito (domani negli Stati Uniti è festa) saranno pubblicati i dati sul mercato del lavoro di giugno, seguiti sempre molto da vicino per le implicazioni che possono avere a cascata sulle decisioni della Federal Reserve sui tassi di interesse. Gli investitori, forse, sentono il bisogno di tornare alla «normalità» dei temi di sempre.

L’economia Usa dà nuova forza al dollaro

Mentre Tsipras e la Merkel si avvicinano al duello (finale?) del referendum in programma domenica in Grecia sull’approvazione del piano proposto dai creditori, sul mercato dei cambi va in scena un altro appassionante scontro. Quello tra euro e dollaro con la divisa europea che ieri ha ceduto quasi l’1%, dopo aver preso nel corso dell’ultimo anno una chiara direzione ribassista per l’euro, arrivato a marzo fino a 1,04 rispetto agli 1,4 dollari a cui era scambiato fino all’estate scorsa.
Dopodiché qualcosa si è rotto e il biglietto verde si è leggermente sgonfiato fino a quota 1,15. In questo movimento le parole usate da esponenti americani hanno certamente avuto il loro peso nell’indicare a più riprese che «un dollaro troppo forte è un problema». Ma se è vero che la politica monetaria – come ha detto l’ex governatore della Federal Reserve Ben Bernanke- si fa per il 98% con le parole, è anche vero che i numeri non lasciano comunque indifferenti i mercati. Come conferma il ribasso di ieri dell’euro nei confronti del dollaro, sceso sotto la soglia di 1,11. Sulla valuta unica, già provata dal nervosismo relativo agli sviluppi delle trattative fra Grecia e creditori, è giunto a pesare in apertura dei mercati Usa il buon dato sull’occupazione del settore privato. Il settore privato americano ha creato a giugno 237mila posti di lavoro, come indicato dal sondaggio dell’Adp. Il dato è superiore alle attese degli analisti, che scommettevano su 218mila posti. I dati ufficiali sul mercato del lavoro saranno pubblicati oggi, e le attese sono per 230mila nuovi posti con un tasso di disoccupazione al 5,4%.
I numeri preliminari del sondaggio certificano in ogni caso che a giugno gli Usa hanno segnato il più alto incremento di posti di lavoro da dicembre. Hanno battuto le attese anche i dati dell’indice Ism che misura l’andamento del settore manifatturiero negli Stati Uniti: a giugno è salito a 53,5 punti dai 52,8 punti di maggio. Gli analisti avevano previsto un’espansione minore, a quota 53,1 punti. Questi numeri hanno dato tono al dollaro, penalizzando l’euro che, sulla ripresa delle trattative fra Atene e le controparti internazionali, era comunque riuscito a mantenere una certa tonicità malgrado il mancato pagamento della rata dovuta al Fmi entro martedì.Il dollaro non si è rafforzato solo nei confronti dell’euro, ma anche delle altre principali valute, come espresso dal dollar index, che monitora l’andamento della divisa statunitense in relazione a un paniere di sei valute, ponderate con pesi specifici differenti (euro 57,6%, yen 13,6%, sterlina 11,9%, dollaro canadese 9,1%, corona svedese 4,2%, franco svizzero 3,6%). Il dollar index ieri ha superato i 96 punti allontanandosi dal minimo di periodo a 93 toccato a metà maggio. E questo dimostra che nonostante gli sforzi degli Usa per evitare un ulteriore rafforzamento del dollaro, questo da un certo punto di vista pare nella logica degli eventi dei prossimi mesi pressoché inevitabile. Perché gli Stati Uniti si apprestano a rialzare i tassi mentre Eurozona e Giappone vanno avanti con le manovre espansive di quantitative easing, complici delle prospettive inflazionistiche più basse che negli Usa.
Va però detto a tal proposito che la crisi della Grecia potrebbe offrire un’occasione alla Federal Reserve per rimandare ulteriormente il primo rialzo dei tassi dopo ormai quasi 10 anni (è dal 2006 che dalle parti di New York non si opera una stretta monetaria). Non è un caso che il mercato monetario Usa offra elementi contradditori rispetto alle dichiarazioni ufficiali che aprono appunto a un rialzo (o due) dei tassi Fed Funds entro fine anno(che attualmente oscillano tra 0 e 0,25%). I rendimenti dei titoli di Stato a due anni viaggiano allo 0,68%, un livello paradossalmente più basso rispetto a inizio anno (0,73%) quando invece i mercati scontavano un rialzo dei tassi a giugno. Bene, giugno se n’è andato e i tassi statunitensi sono ancora fermi. Staremo a vedere se sarà la stessa solfa a settembre. Una cosa è certa: la Grecia può rappresentare un intralcio nel breve periodo ma tra poco i mercati torneranno a concentrarsi sul vero driver: quel cambio euro/dollaro il cui andamento, nel mondo della finanza globalizzata, equivale al battito d’ali di una farfalla capace di smuovere tutte le altre asset class. Cosa accadrà a Borse e bond se il cambio scivolerà sotto la parità da qui a 12 mesi come pronosticato da molte banche d’affari?

Contributi in sicurezza

Nessun deprezzamento dei contributi a chi andrà in pensione il prossimo anno. Il montante contributivo, infatti, si rivaluterà per intero di oltre mezzo punto percentuale (0,5331%, pari alla differenza quinquennale del prodotto interno lordo, pil), senza necessità di recuperare la svalutazione che lo stesso montante doveva subire quest’anno e che non c’è stata. Questa una delle principali modifiche apportate dalla commissione lavoro al testo del dl pensioni (65/2015) che, ieri, ha ricevuto dall’Aula della camera il primo via libera. Il dl passerà ora al vaglio del senato che dovrà convertirlo entro il 20 luglio. Per stessa ammissione della relatrice Anna Giacobbe (Pd), però, «l’impianto normativo non dovrebbe subire modifiche di carattere sostanziale. Si tratterà, caso mai, di correggere alcune sfumature o alcuni stanziamenti di fondi».

Il contributivo. La novità introdotta e che offre una boccata di ossigeno ai futuri pensionati, riguarda il calcolo c.d. «contributivo» delle pensioni che si basa su tre parametri: la retribuzione, l’aliquota di computo e il coefficiente di trasformazione. All’atto di pensionarsi, il montante contributivo è rivalutato e su di esso è applicato il coefficiente pre-fissato dalla legge che converte quei contributi in pensione. La rivalutazione avviene in base al pil che misura la capacità del paese di far girare l’economia. Il problema, però, è sorto il 27 ottobre 2014 quando l’Istat ha fornito il tasso di rivalutazione dei montanti per il 2013 che andranno in pensione a partire dal 1° gennaio 2015, ossia la variazione quinquennale del pil. E per la prima volta dal 1996 il tasso è risultato inferiore a «uno» che garantisce l’invariabilità: 0,998073%. Ci sarebbe dovuta essere, dunque, una svalutazione dei montanti che, però, è stata bloccata dell’Inps che ha congelato l’operazione. La questione è stata sistemata dall’art. 5 del dl 65/2015, che però, in un primo momento, prevedeva il «recupero sulle rivalutazioni successive». Per l’anno 2015, quindi, il coefficiente da applicare è posto pari a 1 in luogo di 0,998073, fatto salvo il recupero nel 2016 (quando il coefficiente sarà pari a 1,005331) per sterilizzare il tasso negativo. In questo modo, però, sarebbero risultati penalizzati quanti fossero andati in pensione dal prossimo anno. Problema risolto con il comma 1-bis aggiunto all’art. 5 che stabilisce la deroga prevedendo che il recupero non operi in sede di prima applicazione della nuova disposizione, cioè per quei soggetti che andranno in pensione l’anno prossimo (sulle rivalutazioni del 2015). Soddisfazione per il risultato raggiunto è stata espressa dal sottosegretario al lavoro, Teresa Bellanova, che si può ritenere più che soddisfatta per l’approvazione «di un provvedimento che aumenta in maniera importante le risorse per gli ammortizzatori sociali. Un impegno mantenuto su misure importanti, che consideriamo tra gli strumenti migliori per garantire i livelli occupazionali durante i periodi di crisi».

Il registro torna a casa

Il registro dei revisori legali tornerà a casa dei commercialisti. Con un impegno che è arrivato formalmente ieri dal presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili Gerardo Longobardi, la categoria si prepara a dare battaglia al ministero dell’economia per riportare a casa uno strumento che il Cn, numeri alla mano, ha gestito dal 2006 al 2012 (anno in cui è stato affidato alla Consip) in modo efficiente ed economico, anche per le casse dello stato.

Ma non solo registro perché nella sua relazione all’assemblea di ieri alla presenza di 125 ordini su 144, dove il riferimento all’unità della categoria evitando «scissioni» è stato più volte sottolineato, Longobardi ha affrontato diversi temi, da quelli più legati alla politica interna fino alle questioni afferenti direttamente all’esercizio della professione di commercialista.

Uno dei temi più spinosi all’ordine del giorno quello della riorganizzazione degli ordini territoriali, si parla di 54 organismi tra quelli in via di soppressione e altri che subirebbero un ridimensionamento o un allargamento della propria base, aperta all’indomani della soppressione di alcuni tribunali (dlgs 155/12). Una questione sul tavolo del ministero della giustizia da circa due anni e che per qualcuno si legherebbe alla richiesta, negata da Longobardi e osteggiata da diversi presidenti, da parte del Cn di prorogare il mandato di consiliatura ridottosi di quasi due anni per via del commissariamento. In attesa comunque che alla giustizia si prenda finalmente una posizione, a oggi sembra esserci solo una certezza: gli ordini resteranno in vita fino alla naturale scadenza del mandato, cioè fine 2016. Nel frattempo ha rassicurato «ci impegneremo per tenerli in vita», anche perché «non hanno alcun obbligo di sciogliersi». E sempre per fine mandato l’impegno, non semplice, di riportare sotto la gestione del Cn il registro dei revisori, dal 2012 in mano al Mef. Dal 2006 e per sei anni l’elenco dei revisori è stato tenuto da una società del Cn (ora dismessa) che garantiva una gestione tempestiva, basti pensare che un clic ha sostituito la consultazione di Gazzette Ufficiali, ma pure economica visto che nell’arco di tempo il Cn ha versato alla giustizia circa 9 milioni di euro. Ecco perché ha detto Longobardi «dimostreremo con i numeri che il Cn può gestire il registro in modo efficace e che deve tornare sotto la nostra tutela». In tema di adempimenti e di scadenze fiscali invece è stato ricordato l’incontro per il prossimo 8 luglio con il viceministro dell’economia Luigi Casero «per la convocazione di un tavolo tecnico finalizzato a semplificare le procedure e rendere più facile la vita dei commercialisti». Per armonizzare invece il ginepraio di norme a livello territoriali, il presidente dei commercialisti ha inoltre annunciato l’imminente firma di un protocollo di intesa con l’Agenzia delle entrate per rendere uniformi i comportamenti di agenzie locali e ordini in tutto il territorio. E infine due azioni a tutela della categoria e in particolare dei ragionieri: la prima riguarda il decreto che stabilisce i requisiti per l’iscrizione degli organismi di composizione delle crisi da sovraindebitamento che ha escluso di fatto questi professionisti e contro il quale la categoria ha proposto un ricorso che sarà discusso nel merito il 14 ottobre, il secondo è relativo alla delega fiscale che ridisegna in parte l’architettura del contenzioso tributario che ha allargato impropriamente la platea dei professionisti chiamati alla difesa, dimenticando però i ragionieri, inserendo invece gli esperti contabili che per legge non ne sono competenti. «La speranza», ha chiuso infine Longobardi, «è che si tratti solo di una svista a cui si ponga rimedio al più presto».

Guerra avverte: adesso serve una Cassa depositi più incisiva

«Immaginare che oggi ci sia un Iri non credo sia all’ordine del giorno». Così Andrea Guerra, ex top manager di Luxottica e fino a ottobre 2015 consulente del premier Matteo Renzi, ha risposto ieri al direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana nel convegno «Liquidazione dell’Iri: fu vera gloria?», promosso dalla Fondazione del quotidiano di via Solferino. 
Il dibattito, coordinato da Fontana, aperto da Piergaetano Marchetti, presidente della Fondazione, e che ha preso spunto da un saggio di Massimo Mucchetti, ex editorialista del Corriere e presidente della Commissione industria del Senato («L’ultimo decennio, revisione di una liquidazione sommaria»), si è indirizzato subito sull’esistenza o meno di una «storia parallela» fra Iri e la (soprattutto nuova) Cassa depositi e prestiti. Secondo Guerra «negli ultimi 10 anni il mondo ha accelerato, l’Italia si è fermata. Oggi condizioni economiche e riforme del governo ci portano a una possibile ripresa», ma «abbiamo bisogno di un mercato di capitali, infrastrutture tecnologiche e di aiutare le aziende nell’internazionalizzazione». Fa riferimento al cambio di vertice in Cdp (con l’arrivo di Claudio Costamagna e Fabio Gallia), e sottolinea che la disponibilità di talenti «che il mondo ci invidia» ha portato ad anticipare i tempi del rinnovo: «Non si vuole stravolgere Cdp o fare cose strane», ma che diventi protagonista di un mondo che ha «nuovi confini, nuove tecnologie e tassi bassi». Alla domanda se entrerà in Telecom risponde di non avere «voce in capitolo sulla futura strategia» della Cassa, però dice: «In Telecom succede una serie di cose, Deutsche Telekom ha dentro la Cdp tedesca e Orange la Cdp francese. Non è che i nostri concorrenti siano angeli o agnelli e noi i più puri. Ci sono momenti in cui prendere delle responsabilità». Mucchetti fa notare che Cdp ha però prospettive di ricavi calanti e che il problema è «la dotazione di capitale di rischio». E Mariana Mazzuccato, autrice del saggio «Lo Stato innovatore» invita a guardare alla Silicon Valley e al ruolo determinante dello Stato imprenditore americano nella nascita e sviluppo di quella realtà hi-tech.

Montepaschi, il Tesoro avrà il 4%

La banca più antica d’Europa, forse del mondo, aggiunge un nuovo primato ai tanti messi in fila nella sua lunga storia: il ritorno dello Stato nel capitale di un istituto di credito italiano, a vent’anni dall’addio alle bin (Comit, Credit e Banca di Roma). Da ieri il ministero del Tesoro è il secondo azionista di Mps con una quota del 4%, subito alle spalle di Fintech, messicani con base a New York (4,3%), che non potrà essere venduta almeno per i prossimi sei mesi. 
La presenza pubblica nella banca di Siena non ne prevede un ruolo attivo nella governance, ma accompagnerà comunque, almeno nella tempistica, il cambio della guardia al vertice, con l’uscita nelle prossime settimane di Alessandro Profumo dopo poco più di tre anni da presidente a Siena. L’ex amministratore delegato di Unicredit rimetterà l’incarico al consiglio del 6 agosto. La scelta per la presidenza potrebbe ricadere su Pietro Modiano, già braccio destro dello stesso Profumo.
L’ingresso del ministero oggi guidato da Pier Carlo Padoan non può essere considerato una sorpresa per il Montepaschi, per che per fa fronte alla crisi di liquidità ha emesso a suo tempo obbligazioni riservate al Tesoro, i cosiddetti Monti bond. Spiega una nota della banca che l’ingresso è avvenuto come previsto attraverso l’emissione di nuove azioni a favore del ministero a titolo «di interessi maturati al 31 dicembre 2014» proprio sui Monti bond (in tutto 4,07 miliardi di euro). Si tratta della super cedola del 9% riconosciuta a suo tempo sul prestito statale. Nel 2014, anno chiuso con un rosso da 5,4 miliardi dopo le maxi svalutazioni per 7,8, Mps era riuscita a evitare che il pagamento degli interessi sul 2013 avvenisse con l’emissione di nuove azioni a favore del Tesoro.
La banca aveva giocato la carta dell’emissione di nuovi Monti Bond, ripagati poi al Tesoro utilizzando 3 dei 5 miliardi dell’aumento di capitale condotto in porto lo scorso giugno. Una clausola utilizzabile solo una volta: il contratto non prevede sia di nuovo percorribile nell’anno in corso che pure ha visto il varo di una nuova ricapitalizzazione da 3 miliardi.
L’arrivo dello Stato-azionista ha l’effetto di diluire, anche se lievemente, gli altri soci. Secondo i primi calcoli, Fintech passa dal 4,5% al 4,3%. Btg Pactual dovrebbe scendere dal 3,13 al 3%, la compagnia francese Axa dal 3,17% a poco più del 3%, la Fondazione Monte dei Paschi si riposiziona poco sotto l’1,5%. Alessandro Falciai, accreditato di 1,9% dopo l’aumento andrebbe all’1,8% circa, salvo successivi rafforzamenti per il socio che ha già espresso 4 consiglieri sui 7 attributi alle liste di minoranza.
Per Mps resta a questo punto ancora aperta la strada di un’alleanza forte e internazionale. E forse il vincolo di lock-up di 180 giorni sulla quota del Tesoro, i sei mesi in cui le azioni non possono essere vendute, più che una rigidità, potrebbe rappresentare un tempo prezioso per la riflessione.

Il piano segreto di Varoufakis: una moneta parallela all’euro

DA uno dei nostri INVIATi Atene Nessuno sale più all’Acropoli. Da ieri ormai non ci salgono i turisti, i cui torpedoni sono scomparsi dai piedi della salita al tempio di Atena con l’approssimarsi dell’atto finale di questo dramma. Ma nel più puro senso ateniese del termine non ci sale più neanche Yannis Dragasakis, vicepresidente del governo di Alexis Tsipras: l’Acropoli era il luogo al quale nell’antichità ci si arrampicava per rendere omaggio alla dea con un sacrificio rituale. Ieri Dragasakis, 68 anni, leader nei negoziatori greci con i ministri delle Finanze europei, si è rifiutato di diventare l’oggetto del sacrificio da consumarsi in diretta con Bruxelles e non si è presentato al ministero delle Finanze per la teleconferenza dell’Eurogruppo. 
È la prima volta, ed è un chiaro segno che in questi giorni le fedeltà intorno a Tsipras si stanno disintegrando insieme alla tenuta del governo. Il moderato Dragasakis, insieme all’ex governatore della Banca di Grecia George Provopoulos e (meno probabilmente) all’attuale governatore Yannis Stournaras, sono candidati di punta alla guida del prossimo governo che, con basi più ampie e moderate, dovrà portare la Grecia fuori dall’emergenza. Non c’è più tempo: i pagamenti nel Paese stanno collassando, i pensionati senza bancomat hanno diritto a ritirare non più di 120 euro ogni tre giorni e navi turistiche da 500 posti partono ormai dal Pireo per le Cicladi con 20 passeggeri a bordo. Tagliata fuori dai finanziamenti europei, in default e priva di piano di salvataggio, la Grecia si sta ripiegando come una mongolfiera senz’aria.
Del resto Tsipras ha ormai scelto lui stesso di andare al sacrificio, il proprio o dell’intera nazione. Un sintomo si è percepito ieri quando, di nuovo per la prima volta, la delegazione ellenica non ha montato teleconferenza con l’Eurogruppo al Maximou, il palazzo del primo ministro. La squadra greca si è raccolta negli uffici di Yanis Varoufakis, che fuori dalla finestra hanno il telo con lo slogan «No al ricatto dell’austerità» voluto dallo stesso ministro delle Finanze. Ma dentro, in videoconferenza con Bruxelles, gli uomini della delegazione erano diffidenti gli uni degli altri in un clima da bunker agli ultimi giorni di una resistenza disperata. Il più celebre di loro, Varoufakis, è del resto sempre più tentato dall’idea di trascinare il Paese verso una conversione monetaria in dracme «uno a uno con l’euro» se nel referendum di domenica prossima vincesse il «no».
«Non tutti erano preparati psicologicamente a questa situazione», osserva qualcuno che ha vissuto dall’interno questi cinque mesi nel governo. «Ma Tsipras ha capito che è alla fine, e vuole perdere sul campo da eroe: sconfitto semmai dalla volontà popolare dei greci ma non dalla Germania». Un sintomo che il premier pensa di avere davanti a sé pochi giorni al Maximou è nell’incoerenza di ciò che ieri ha detto ai greci: ha promesso un accordo con l’Europa in tempi brevi, dopo cinque mesi di negoziati a vuoto, a patto che i cittadini rifiutino nel referendum di domenica la sola proposta di compromesso esistente (ormai ritirata).
È stato il punto di arrivo di tensioni che covavano dentro il suo governo, e che fra lunedì e martedì sono esplose. Dragasakis ha contestato la scelta di Tsipras di andare al referendum senza un programma di assistenza, senza un accordo chiaro e con il Paese in default. Gli ha consigliato di cercare subito il compromesso con i Paesi creditori, nei termini che fino a quel momento aveva rifiutato, e di cancellare un referendum convocato senza valutarne le conseguenze. Attorno a Dragasakis si è compattato il gruppo di uomini di governo più consapevoli delle conseguenze alle quali la Grecia sta andando incontro se vincesse il «no»: il ministro dell’Economia George Stathakis, il braccio destro e vecchio amico di Tsipras Nikos Pappas, l’avvocato d’affari degli oligarchi greci Spiros Sagas. Sulla linea dell’intransigenza, a favore del referendum e per il «no» sono rimasti invece i falchi: Varoufakis stesso e Eukilidis Tsakalotos, lo studioso marxista-leninista che formalmente oggi sarebbe a capo dei negoziati con l’Europa.
Tsipras per qualche ora è rimasto nel mezzo, smarrito, poi martedì sera aveva iniziato a spostarsi verso il fronte che spingeva per cancellare il referendum e scendere a patti. È così che è partita la lettera a Bruxelles di accettazione di quasi tutte le condizioni, discussa con il commissario agli Affari economici Valdis Dombrovskis, ben oltre l’ultimo minuto. Ma non è servita, perché la reazione tedesca è stata gelida: la cancelliera Angela Merkel non intende stendere ancora la mano a un governo che non ritiene affidabile. Ha lasciato Tsipras fuori al freddo, incoraggiandolo a tenere il referendum e bere fino in fondo la sua cicuta. Ieri al premier non è rimasta altro che confermare la consultazione e raccomandare il «no».
Se domenica vincesse il «sì», come sembra possibile visto il panico nel Paese, Tsipras lascerebbe a un nuovo governo: o di unità nazionale, con l’ex governatore Provoupoulos, o (meno probabilmente) un esecutivo composto dai soli moderati di Syriza, dal Pasok e dai filo-europei di Potami, con Dragasakis come premier.
Se invece vince il «no», Varoufakis ha già parlato a Tsipras del suo progetto, in piena contraddizione con la promessa di entrambi che la Grecia resterà nell’euro. L’idea è quella di un nuovo «veicolo monetario» parallelo, solo in teoria convertibile alla pari con l’euro, ma necessario per ricapitalizzare le banche e permettergli di riaprire prima che ad Atene scoppi una rivolta. «Ucrainizzazione» è il modo in cui Varoufakis definisce quest’ultimo scenario, e per evitarlo si sta studiando come funziona il Bitcoin (la monete online).
In fondo ad Atene, anche nell’antichità, il culto dell’Acropoli si compiva sempre con un’ecatombe .